martedì 31 maggio 2011

“L’albero della vita” di Terrence Malick. Non un film, una messa.

Leggo da più parti le opinioni di esperti del settore, sento le impressioni della gente, ascolto silenziosamente i commenti di persone vicine anche molto preparate e sensibili.

Eppure continuo a stupirmi che molti ritengano il film di Malick, “L’albero della vita”, un film da non consigliare neppure al peggior nemico, un’esperienza altamente negativa. Io invece continuo a pensare, fin dalla prima impressione in sala, ed ancora adesso, di aver avuto il privilegio di trovarmi in questo periodo storico per poter assistere ad un’esperienza artistica di così alto livello. Per me “L’albero della vita” è una capolavoro di livello assoluto.

Lo considero addirittura il film dei film, una sintesi di tutto quello che c’è stato prima, Malick a parte.

Dicono in tanti che il film riprenda in una sorta di percorso ciclico i precedenti film di Malick, in particolare “La rabbia giovane”, ma anche “Nuovo Mondo”, ma io non ho visto – ancora – nessuno dei due.

Rivedo anche io, senza troppo sforzo, riferimenti immediati al meraviglioso “2001” di Kubrick e penso che proprio da quel film sia necessario partire per capire appieno il film di Malick.

Il film di Malick è il film dei film – secondo me – perché riesce con coraggio ed efficacia ad affrontare il tema dei temi: l’esistenza, intesa come piccolo segmento di vita, di respiro, di presenza nello spazio senza fine dell’universo e dell’eternità. Un tema incredibile ed enorme di fronte al quale il rischio della banalità e dell’ovvietà è veramente dietro l’angolo. Ma Malick a questo mira e questo riesce a rendere con piena onestà.

Da questa prospettiva vanno lette ed apprezzate le scene dei dinosauri, le riprese meravigliose della natura, dei vulcani, degli oceani in movimento, dei pianeti e dei satelliti e persino l’incantevole danza delle meduse. La medusa come parte anch’essa dell’esistente, come i protozoi, come i microorganismi.

Per me tutto questo è una pura estasi.

Il film di Malick, come ho letto, è una specie di messa. Ed io sono d’accordo, in pieno. La solennità sta però non nel rito che al film sembra accompagnarsi. La solennità sta nell’oggetto del film: l’aspirazione alla comprensione di questa eternità che spiega il senso dell’esserci, del continuare ad essere presente nel segmento di universo che al momento presente ogni essere umano e non umano possiede.

La religiosità, dunque, non è un’egemonia del rito, della Chiesa, dell’istituzione. La religiosità è il sentimento che, anche - e direi – soprattutto attraverso l’arte trova espressione in una forma, in una rappresentazione visibile. La religiosità è nell’urgenza di conoscere, approfondire, celebrare in ogni modo il fatto di essere parte dell’esistente e dell’infinità del Tempo.

Il film di Malick, allora, è una celebrazione di questa religiosità, intesa non in senso cattolico, musulmano, ebraico ma in senso pienamente laico, aperto, accessibile a chiunque. I riferimenti alle sacre scritture (la figura di Giobbe), la scena nella Chiesa, una costante presenza divina nei discorsi della madre sono, infatti, patrimonio dell’uomo, non solo del credente; un patrimonio di tutti gli uomini.

La materia del film resta sempre l’uomo ed il suo percorso tormentato verso la verità; un percorso che il credente – evidentemente – farà in una direzione ed il non credente in un’altra. E, tuttavia, un percorso identico: il percorso verso la consapevolezza dell’esistere come essere capace di scelte, di valutazioni, di decisioni, di lotte, di direzioni e del non essere solo un corpo movente buttato nel mondo

Il film ha una struttura ciclica. Si parte dall’inizio della vita, si torna dove tutto ha avuto inizio, con la riconciliazione finale del personaggio con il proprio passato.

Il protagonista vive il suo presente (nella scissione fra l’io che ricorda e l’io che è contenuto di quel ricordo ) in un contesto di smarrimento, di paura, di nonsenso perché è vittima di una società corrotta e lontana dalla natura, dalla bellezza, dalla verità. Il suo percorso interiore nel ricordo ha l’aspetto di un’ascesi, simbolicamente racchiusa nel viaggio in ascensore su e giù nel grattacielo dove lavora.

E nel ricordo la luce ha un ruolo fondamentale: la scena finale sarà quella più nitida perché è lì che giungerà la verità.

Ritorna, allora, con la mente a quel segmento di vita che ha avuto il privilegio di possedere, nel mezzo dell’eternità, fra dinosauri che lo hanno preceduto, meduse che vivono la sua esistenza di parte del Tempo e l’eternità che seguirà poi il corso della sua vita, dopo la sua fine.

Il ricordo è allora rivolto alla propria storia, come è naturale che sia, alle proprie origini.

La figura del padre, americano medio che insegue il sogno del riscatto sociale come obiettivo esistenziale (riferimenti letterari a Faulkner e Steinbeck) - un sogno effimero che si conferma poi nella tragedia della perdita del lavoro e nel trasferimento in altra città (un evento che segna la fine di un’epoca per la famiglia e la fine dell’infanzia per il protagonista) - e che non sa vivere l’amore in maniera naturale ma solo filtrato attraverso schemi sociali preordinati (dirà alla fine “Sono stato un uomo profondamente stolto, ho passato la vita a fare di tutto per meritare l’amore”..).

La madre pura, angelica, ingenua che pone l’amore dei figli al centro di tutto e che però è debole dinanzi al marito.

La figura del fratello che simboleggia i buoni che nel mondo sono destinati a perire, a soffocare, a dare la vita (la lotta del Bene e del Male non è dunque un fatto retorico ma forse la cosa più concreta che esista).

Ed ancora la sua figura stessa di ragazzo ribelle (ritorna “La rabbia giovane”…) che rifiuta i modelli per trovare la propria via, che si smarrisce e prova vergogna nella scoperta del sesso (il furto della vestaglia da notte ed il suo abbandono nel fiume) e prova le esperienza della scoperta del dolore altrui (il ragazzino sfregiato vittima di un incendio), della violenza come condizione quasi naturale di relazione nel mondo degli uomini (il sadismo incontrollabile verso il fratellino più piccolo, verso il soggetto più debole) ma violenza comunque appresa e trasmessa dal padre stesso che, in fondo, della società corrotta è la prima vittima (le scene in cui è costretto vanamente ad imparare a fare a pugni).

Vi è quindi lentamente un percorso di allontanamento dalla natura, dall’età felice, dall’epoca primordiale di simbiosi, dalla verità e di avvicinamento verso la società degli uomini e delle sue leggi che culmina poi (Malick si concentra ovviamente solo sulla fase dell’infanzia ma lascia intendere molte altre cose..) nella maturità amara e triste del protagonista.

Nel mezzo di questo percorso interviene la morte del fratello, che avviene improvvisa e tragica all’età di diciannove anni; lasciando nello sfondo la possibilità concreta che sia avvenuta in guerra (ricostruendo il periodo storico è possibile che, per esempio, si nasconda un riferimento al Vietnam).

La guerra, quindi, come fatto orribile, non raccontato, nascosto, che è la sublimazione della società degli uomini e che miete vittime innocenti. La guerra che cambia profondamente le vite degli uomini (qui, riferimenti ad un altro film capolavoro di Malick, “La sottile linea rossa”; dove la guerra è vista proprio come un prodotto della società degli uomini che interviene sulla natura e sull’essenza interiore di tutti gli esseri viventi).

In tutto questo quadro la natura sembra nella vita del ragazzo essere nascosta dal paesaggio artificiale degli uomini (il quartiere residenziale dell’infanzia, la bella casa dove il protagonista adulto vive, il grattacielo dove lavora) ma più forte, nonostante ciò, di ogni cosa e resta sempre attorno a lui, nella forza rassicurante e nella sua violenza.

La natura è sempre presente nel film, in ogni scena: la presenza del vento che muove le foglie (che simbolicamente evidenzia la debolezza e delle cose esistenti rispetto alla natura stessa), la presenza dell’acqua che uccide (il bambino che annega nel lago) o che dà la vita (la scena della nascita) o che accoglie le paure (il protagonista abbandona la veste rubata nel fiume) o che riconcilia con sé stessi (le onde del mare, placide e tranquille nella scena finale) e così via.

Si è detto che è un film senza trama. Non è argomento veramente decisivo e, tuttavia, la trama esiste. Il film è anche e soprattutto la storia di un uomo che cerca di ricostruire nel ricordo il senso della propria vita, che cerca di ritrovare la propria identità dopo averla smarrita proprio dentro la società degli uomini; un mondo popolato di inganni, tranelli, egoismi, ostilità.

E’ la storia di un uomo che cerca la propria fede, intesa come verità, come senso profondo dell’esistere, dell’essere, in contrapposizione con la violenza distruttrice della tentazione verso il nulla, verso il non essere.

Il protagonista infelice, solo, perduto nel suo mondo presente potrebbe decidere di procurarsi la morte, di scegliere la propria fine. Il film finirebbe lì, è chiaro.

Ma Malick propone una alternativa alla scelta nichilista del suicidio: la ricerca della verità come condizione necessaria del vivere; la lotta verso la verità come senso stesso dell’esistere.

Ed allora è nell’infanzia che la costruzione dell’identità può trovare il suo primo fondamento da cui ogni cosa successiva si sviluppa in modo naturale, inevitabile, coerente.

Torno a quello che ero - sembra dire il protagonista -, ricordo cosa ero per capire cosa sono veramente.

E poi il finale. Una delle scene più belle della storia del cinema.

La riconciliazione – ancora una volta nella natura – con la propria vita, con la propria storia nella presenza di tutto quello che quella vita ha composto. I compagni di viaggio, i fratelli, il padre, la madre e tutto il resto.

Il protagonista scende, dopo questo viaggio interiore, al piano terra con una consapevolezza nuova, ricordandosi, forse, che i problemi che pensiamo affliggano ogni giorno l’uomo e che portano molti a dubitare della convenienza o del vantaggio nel proseguire a vivere sono nulli, se rapportati all’eternità del tempo e dell’universo e, dunque, al privilegio – irripetibile ed unico – di essere vivi e di segnare con la nostra azione una traccia indelebile – come i graffiti sulle caverne (quando ci penso mi emoziono per la genialità di questa cosa …) – sul registro del mondo.

Alla fine il sole si spegne. Una scena che io interpreto (ma forse dovrei rivedere il film) come la fine della vita, come due occhi che lentamente cedono e si chiudono; il sole che si spegnerà un giorno per ciascuno, nessuno escluso.

Eppure quel sole che si spegne non può suonare, dopo aver visto il film di Malick, come un pensiero di tristezza ma solo come un cerchio che ad un certo punto si può chiudere con serenità.

Malick sembra in questo punto rispondere al replicante di “Blade runner”: tutti quei momenti non si perderanno come lacrime nel tempo perché – come dice la figura della madre – bisogna amare e sognare e stupirsi perché senza amore la vita ti sembrerà passare come un lampo.

Ecco, finalmente, il messaggio finale che fa di questo un film epocale.

L’amore chiude il cerchio, è la linfa che nutre l’albero della vita: se vivi amando fino in profondità, amando le tue azioni, il tuo lavoro, la tua arte e, possibilmente, anche i tuoi simili ed il mondo di cui fai parte, il giorno in cui il sole dovrà necessariamente spegnersi non avrai solo il rimpianto del replicante che vorrebbe avere più tempo per apprezzare ancora la vita.

La morte sarà solo l’epilogo naturale di una vita vissuta come un privilegio, un’avventura meravigliosa di un essere che ha capito di essere la porzione di un universo in movimento e non una monade solitaria condannata a trovare espedienti per tirare avanti per qualche anno.

Questo è l’albero della vita raffigurato da Terrence Malick.

Conosci le tue origini, la tua storia - sembra dire Malick - per conoscere te stesso. Sei un albero che dall’amore di altri proviene, nel legame con la terra, con la natura, con il mondo e solo amore i frutti dei tuoi rami possono produrre per dare senso a quello che - in un tempo molto piccolo rispetto all’eternità della storia della vita- sei stato.

E’ un’immagine stupenda, un pensiero enorme.

E’ fin troppo chiaro che un messaggio così alto non può essere contenuto in un contenitore così piccolo quale è un film né essere analizzato in veste di spettatore dentro un cinema.

E’ un progetto fin troppo ambizioso e, forse, Malick ha peccato del peccato dell’ambizione nel realizzare questo film. Ma sarà stato il suo albero della vita ad ispirarlo; e quindi lo possiamo certamente perdonare.

Il film di Malick non merita solo proiezioni nei cinema dove rischia di non essere compreso e di essere maltrattato. Non è un film come gli altri e, quindi, merita dibattiti, studi, libri, proiezioni nelle scuole e nelle università.

Non è un film, è una messa universale, per tutti gli uomini del mondo. Una messa in cui si canta non il rito della Chiese ma quello della vita di tutti gli esseri viventi, di quelli che ci sono stati e di quelli che ci saranno dopo.

Un film che è un pezzo pregiato di questa vita. Breve o lunga che sia, comunque incantevol