domenica 27 febbraio 2011

da "Natura" di Ralph Waldo Emerson

“La natura non è fissa ma fluida. Lo spirito la altera, la modella, la crea. L’immobilità o l’insensibilità della natura è assenza di spirito; per il puro spirito la natura è fluida, è volatile, è obbediente. Ogni spirito si costruisce una casa, oltre la casa, un mondo e, oltre il suo mondo, un cielo. Sappi, dunque, che il mondo esiste per te. Per te il fenomeno è perfetto. Ciò che siamo, solo quello siamo in grado di vedere. Tutto ciò che Adamo ha posseduto, tutto ciò che Cesare ha potuto, tu possiedi e puoi fare. Adamo chiamava la sua casa cielo e terra, Cesare chiamava Roma la sua casa, tu, forse, chiamerai casa una bottega da calzolaio, un centinaio d’acri di terreno o una soffitta per studenti. Eppure linea dopo linea, punto dopo punto, il tuo dominio è grande quanto il loro, anche senza nomi ricercati. Costruisci dunque il tuo mondo. Non appena conformerai la tua vita alla pura idea presente nella tua mente, essa si disvelerà in tutta la sua grandezza. Un’equivalente rivoluzione delle cose accompagnerà il flusso dello spirito. Altrettanto velocemente spariranno le apparenze spiacevoli: porci, ragni, serpenti, pestilenze, manicomi, prigioni, nemici sono temporanei e non si vedranno più. Lo squallore e il lerciume della natura verranno asciugati dal sole e il vento li disperderà. Come quando viene l’estate del sud, i banchi di neve si sciolgono e la faccia della terra inverdisce al suo cospetto, così lo spirito che avanza creerà i propri ornamenti lungo il cammino e porterà con sé la bellezza che visita e i canti che lo incantano; disegnerà bei volti, cuori ardenti, saggi discorsi e azioni eroiche al suo passaggio fino a che il male sparirà. Nel regno dell’uomo sulla natura, un regno che non si instaura con l’osservazione – un dominio che va al di là del suo stesso sogno di Dio -, in quel regno l’uomo entrerà con la stessa meraviglia di un cieco che riacquisti gradatamente una vista perfetta.”

venerdì 25 febbraio 2011

da "Il giorno del giudizio" di Salvatore Satta

"Riprendo, dopo molti mesi, questo racconto che forse non avrei dovuto mai cominciare. Invecchio rapidamente e sento che mi preparo una triste fine, poiché non ho voluto accettare la prima condizione di una buona morte, che è l’oblio. Forse non erano Don Sebastiano, Donna Vincenza, Gonaria, Pedduzza, Giggia, Baliodda, Dirripezza, tutti gli altri che mi hanno scongiurato di liberarli dalla loro vita; sono io che li ho evocati per liberarmi dalla mia senza misurare il rischio al quale mi esponevo, di rendermi eterno. Oggi, poi, di là dai vetri di questa stanza remota dove io mi sono rifugiato, nevica: una neve leggera che si posa sulle vie e sugli alberi come il tempo sopra di noi. Fra breve tutto sarà uguale. Nel cimitero di Nuoro non si distinguerà il vecchio dal nuovo: “essi” avranno un’effimera pace sotto il manto bianco. Sono stato una volta piccolo anch’io, e il ricordo mi assale di quando seguivo il turbinare dei fiocchi col naso schiacciato contro la finestra. C’erano tutti allora, nella stanza ravvivata dal caminetto, ed eravamo felici poiché non ci conoscevamo. Per conoscersi bisogna svolgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti risusciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale. E’ quello che ho fatto io in questi anni, che vorrei non aver fatto e continuerò a fare perché ormai non si tratta dell’altrui destino ma del mio."

da "Hanno tutti ragione" di Paolo Sorrentino

“Ma se la parola dice figo, la mente dice figa. Quella maschile intendo. A volte pure quella femminile, beninteso. Avete sentito che ultimamente uno degli interventi di chirurgia estetica più richiesti dalle donne un pochino agè è la ricostruzione interna vaginale? Attenzione, non la ricostruzione della verginità, quella non importa più a nessuno, ma la ricostruzione elasticizzata dei tessuti che si ammollano. Una cosa complessa, costosa e dolorosa. Eppure nulla le ferma, a queste amazzoni dell’estetica decadente. Testarde e risolute come tombini. Come vedete, anche il femminile oscilla sul concetto di figa. Oscilla, ma non si allontana. Assomigliano a barattoli di pummarola scaduta, ma possiedono genitali luccicanti degni di stimati pittori morbosi. A me mi fa impressione. Ma io sono sorpassato da me stesso, figuriamoci dall’umanità. E tutti lì a tormentarsi su queste quattro lettere che toglie loro il respiro: figa, figa, figa, figa, figa. Non dormono la notte, l’appetito se ne va, si bombardano di schifezze da tutte le parti per avere la cosiddetta erezione (che brutta parola, erezione!) per introdurre, introdurre, introdurre. Questo l’obiettivo, lo scopo, la ragione di vita. Cosa c’è attorno? Niente. Non sentite odore di morte? La morte non è la scomparsa del desiderio, quella alla mia età si fa irreversibile e fisiologica. Che cazzo ci vuoi fare? Macché! La morte sta nella semplificazione del desiderio. Così come l’altra morte sta nella semplificazione del linguaggio. D’altronde, il desiderio è sempre stato perennemente appeso ad un’articolazione spettacolare e variopinta del linguaggio. Vanno a braccetto, come le commarelle. Ma non è stato sempre così. Sessantasei anni fa, mia moglie si è voltata e mi ha guardato come non mi aveva mai guardato. Mi ha guardato come il sentiero che s’illumina d’incanto, mi ha guardato come il bambino divertito dagli schizzi d’acqua. Così mi ha guardato ed è stata la rivoluzione di me stesso. Non sto dicendo che mi sono innamorato. Sto dicendo che mi sono eccitato l’anima per una torsione del collo. Vero Carla? Te lo ricordi, Carla? Eravamo ragazzi, Carla. Tutta l’incredulità del mondo ci cadeva addosso senza pudore. E quelle vampate nella scoperta della tenerezza, Carla, ma non valevano più della vita stessa? Io penso di sì, Carla. Annuiscimi ancora una volta, Carla. Lo hai fatto tutta la vita, non me lo negare adesso. Adesso che trascorro le giornate a salutare il mondo perché ogni giornata si preannuncia come l’ultima. Annuiscimi ancora. Abbiamo sudato le nostre ascelle con lacrime di commossa partecipazione mentre ci baciavamo a Capri. Dentro i labirinti dell’estate perenne. E un attimo dopo progettavamo la grandezza della famiglia. Progettavamo la responsabilità, come antidoto a tutti i mali esterni che pure ci sono stati. La responsabilità, l’unico rimedio scientifico contro l’horror vacui. La partecipazione emotiva a tutte le sfumature uno dell’altro. Una morbosità indispensabile, Carla. Sentire le proprie spalle accarezzate dalla mano libera, Carla. Ma dove stavamo? Sospesi e galleggianti nell’istante. Se solo un Dio avesse potuto cristallizzare il nostro sentire. Farci stalattitici umane per tutto il tempo. Non avremmo trascorso i successivi sessant’anni ad acchiappare disperatamente l’istante andato e che non è tornato mai più, perché corrotto dal nostro sapere, dal nostro aver provato, Carla. Abbiamo vagato in coppia, come i barboni all’angolo della strada, alla ricerca non del Tavernello, ma dell’istante e degli istanti amabili. Ma come è stato bello, Carla, il tempo in cui l’ingenuità era una risorsa e l’ignoranza un concentrato di saperi. E i fiori dell’estate che opprimevano i nostri cuori, anche questo ci dicevamo, addensati dentro una retorica possibile e dannunziana, perché esclusiva e condivisa dentro i nostri occhi tristi e felici, l’unica retorica possibile, Carla. Vivere insieme, Carla, come noi abbiamo scelto, ierofanici, ossidionali, ineffabili, ha voluto significare anche cogliere il senso del ridicolo di tutti e due, da soli e insieme, e ammirare, con forza e perseveranza straordinarie, quel senso del ridicolo che scappa via dalle gonne e dai pantaloni, come la vipera che vedemmo a Maratea sotto brutti fuochi d’artificio. Estenuati dalle nostre stesse, infinite parole, fluttuati nei rigurgiti rumorosi della noia e delle noie reciproche, eppure estaticamente assuefatti a quell’idea di unicità, di insostituibilità che non ci ha reso unici, dal momento che nessuno è unico, ma insostituibili sì. Ecco, questo siamo stati, insostituibili. L’amore è insostituibilità.”

Reality show

La morte di Pietro Taricone non mi lascia disinteressato.
Stamattina mi sono svegliato pensando, oltre alle solite cose, a come sarebbe finita con Dell’Utri e se Taricone, nella notte, ce l’avesse fatta.
Quando ho acceso la televisione davanti alla colazione, ripetendo un gesto ripetitivo di ogni giornata, ho visto la schermata che diceva che era morto e qualcosa di triste mi è restato dentro.
Non conoscevo Taricone, come non conosco tutte le persone, giovani e non, che muoiono per incidenti banali come questo ogni giorno.
Il mio pensiero è stato un altro. In qualche modo la faccia di questa ragazzo era negli anni entrata nella mia vita.
La televisione fa diventare le altre persone membri della tua vita, crea una relazione virtuale con i volti che accompagnano le nostre serate o i nostri risvegli televisivi.
E allora ho pensato a quando ho visto per la prima volta la faccia di Taricone. Facevo l’Erasmus, ero in Scozia e in rete impazzavano i blog e le notizie sul primo reality della storia italiana, il Grande Fratello. Era il tempo in cui io guardavo questo fenomeno come una sorta di delirio collettivo e la gente invece si riuniva in gruppi nelle case la sera per assistere alla mutazione genetica della televisione italiana. Da sede naturale di esposizione di visibilità già note a costruzione di personaggi provenienti dal pieno anonimato dei ragazzi della porta accanto.
Non mi interessa discutere delle qualità umane di Taricone, né posso farlo. Lo lascio ad altri.
Penso soltanto al fatto che davvero la nostra vita è forse cambiata inesorabilmente.
Viviamo in costante contatto con un mondo che non esiste. La televisione, internet, facebook hanno potenziato in modo incredibile la nostra capacità di immaginare, di creare realtà e relazioni virtuali. Si è creata una tavola di risorse potenzialmente infinita.
Riusciamo a commuoverci per la morte di persone che non abbiamo mai incontrato e che sentiamo tremendamente ed involontariamente vicine a noi ed alla nostra storia.
Mi chiedo se la nostra vita, allora, così tanto snodata ed allungata sulle ore trascorse su social network, chat, reality si sia davvero arricchita.
Per un verso, penso che il progresso delle tecnologie ci abbia dato una nuova opportunità: abbiamo unito le persone, anche lontane fisicamente tra loro, nelle possibilità più democratiche di accesso alle informazioni, di condivisione e confronto di sensazioni o punti di vista.
Per un altro, però, vedo che, tutto sommato, la presenza così penetrante, quasi “affettiva”, della tv nella nostra vita ed il nostro essere continuamente “in rete” e collegati con il mondo ci costringa, in realtà, ad essere più soli di quanto invece non potremmo essere. Abbiamo sviluppato una grande capacità nell’essere voyeur di ogni evento, di ogni foto altrui, di ogni immagine; senza capire, forse, quale sia davvero il livello della nostra reale “partecipazione” a ciò che è esterno a noi.
Che relazioni, insomma, sono quelle che creiamo e/o alimentiamo sulla rete o tramite in genere le tecnologie?
Forse è un percorso ormai inarrestabile, al punto che non riesco più nemmeno a ricordare la mia vita senza internet e mi chiedo, a volte, come colmassi all’epoca il mio bisogno di “condivisione” che oggi in parte affido a queste nuove forme di comunicazione.
Non voglio pensare che internet e le tecnologie siano droghe di cui siamo dipendenti. Posso benissimo decidere quando spegnere il mio computer ma il punto è: perché non provare ad avere lo stesso livello di condivisione anche senza la rete? Perché le persone non riescono a compenetrarsi con la stessa facilità?
Secondo me la risposta è che i social network, in particolare, sono la conseguenza di una società, la nostra, in cui nel privato non si riesce più ad essere profondamente liberi. Le nostre emozioni per qualche legge di diritto divino devono restare nascoste, represse o soltanto affioranti lungo temi di confronto più convenzionali. La nostra società crea comportamenti uniformi per tutti, per ogni categoria ed il fatto che tutti, o quasi, sono su facebook è la conferma del fatto che hanno bisogno di condividere all’interno un mondo “diverso”, non reale ma virtuale. La realtà non basta perché la nostra vita nei complessi organizzati non soddisfa fino in fondo il nostro bisogno di umanità.
Perché allora non trarre utilità da questo fenomeno? Tutto ciò è il segnale di un istinto di sopravvivenza della nostra umanità. Facebook è la prova di quanto sia sbagliato il sistema di relazioni delle società occidentali: non improntato a vera libertà di manifestazione dei sentimenti, basato sulle regole dell’apparenza e della appartenenza alla classe sociale, in cui le forme di comunicazione non sono quasi mai sincere ma sempre filtrate da troppi schermi. Schermi che su facebook per magia cadono: le persone diventano amici in quindici minuti, si creano coppie e storie d’amore, si confessano problemi a semi-sconosciuti, si scoprono lontananze di vedute profonde da persone considerate veri amici.
Il bisogno di umanità supera le convenzioni sociali e le apparenze e le tecnologie possono essere un aiuto per capire questo.
Però, ciò compreso, dovremmo anche saper spegnere il computer e guardare il mondo con più sincerità.

Sogni di Bunker Hill

Le mie difficoltà, le difficoltà in cui a volte precipito nascono dai miei sogni.
La realtà in cui mi trovo a vivere impone continui compromessi, un adattamento costante.
Vorrei trovare la forza di essere me stesso. Costruisco difese attorno a me, barriere per controllare razionalmente il mondo, evitare di essere preda delle cose, tenere distanza dalla vita.
Ho costruito un muro tra me e il mondo. A un certo punto avevo troppa paura di soffrire e allora ho cominciato un pò per gioco, un pò per sfida, un pò alla fine per abitudine a vivere così. A stare lontano, a tenere a bada le cose.
Non so come sono entrato in questo gioco ma adesso è diventato qualcosa di forte.
La verità è che anche io, come alcuni miei amici molto sensibili, guardo troppo la vita. La guardo passare come un treno che sbuffa lento nella pianura e mi piace sfiorare quei piccoli lembi di fumo che si lascia dietro. Mi piace guardare i passeggeri che stanno nelle loro cabine.
Una volta però volevo di più, volevo riempire questa pianura di gente, pensavo che sarebbe stato semplice. Bastava solo dire quello che pensavo e tutti sarebbero stati con me. Con il tempo mi sono accorto che crescendo devi imparare ad indossare gli abiti giusti, gli abiti della festa, quelli dell'incontro formale, quelli della cordialità, quelli della simpatia. Ma nessuno di questi abiti è mai stato per me della misura giusta.
Eppure le volte che ho gettato i miei abiti via mi sono mostrato nella mia nudità e la gente non sempre mi ha voluto, forse non piace la sincerità, forse la sincerità sembra qualcosa di indiscreto.
Allora, il mio cuore di bambino si è stancato di mostrarsi nudo ed ha iniziato a fingere. A fingere di essere simpatico, cordiale, a modo, pensando che nella mia pianura avrei continuato a restare da solo o al più con pochi amici.
Oggi sono sempre più convinto che le nostre storie, le storie di ognuno che si incrociano nelle emozioni, attimi, momenti che sembrano poter durare a lungo e ci fanno sentire vivi, in realtà, sono per lo più la proiezione dei nostri abiti e di come gli altri vedono quegli abiti. Troviamo uno sguardo che si mostra amico, incontriamo una donna che dice di apprezzarci, intratteniamo una brillante conversazione su temi elevati, eppure in qualche modo ci sentiamo lontani da tutto questo. Nonostante abbiamo riempito la nostra serata di parole, di sguardi, gesti, forse anche qualche bacio, appena posiamo le nostre vesti sulla sedia, non restiamo che noi, privi di niente altro che della nostra mancanza.
E le relazioni tra persone funzionano per lo più così; i rapporti vanno avanti inconsapevoli di quale sia realmente il loro senso oppure consapevoli ma nella amara finzione del loro valore.
Tanta gente sopravvive a questo, vive nell'immediatezza del momento, colleziona attimi dietro attimi pensando così di riempire un'esistenza di tracce di vissuto. Eppure, pensando a queste cose io sento solo disagio, mi sento lontano dalla felicità, dalla verità.
E la mia difficoltà nasce dal fatto che io sogno. Sogno persone che possano vedermi nel profondo, sogno parole che aprano il cuore della gente, oltre le loro vesti, sogno che la gente scenda dal proprio treno rombante e indaffarato e si fermi, tranquilla, sulla mia pianura.
Molti rapporti, in definitiva, mi stancano, aumentano la mia solitudine, imponendomi di restare nella mia pianura.
Ogni tanto cerco di lanciare parole che possano aprire lembi profondi nella pelle della gente ma molti hanno paura di parlare. Molti preferiscono intavolare discorsi sul lavoro, lo studio, i progeti di vita anzichè condividere i loro dubbi sulla felicità che non riusciamo a trovare e sui sogni che davvero ci portiamo dentro costantemente, quando a notte fonda siamo soli in una stanza e non riusciamo a dormire.
Non so se sia colpa della società globale se i nostri sogni siano destinati a restare confinati nella solitudine, non credo che in altri tempi i destini dell'uomo fossero diversi. Sicuramente però la nostra società, quella in cui viviamo, non vuole un uomo sognante e la gente non è portata a parlare dei propri sogni con la stessa serietà di altri argomenti. La nostra società è produttiva, circolante ricchezza, fagocitante risorse verso obiettivi non discutibili: la carriera, il successo economico, il potere, la rispettabilità secondo status sociali. In questi parametri i sogni sono un elemento destabilizzante perchè aprono lo spazio dell'anarchia individuale. Se le persone invece di ansimare dietro modelli di confronto predeterminati solo per avere consenso, appoggio, aprissero di più il proprio cuore mettendo sul tavolo di ogni discorso i propri sogni avremmo una società meno rigida, forse più caotica ma piena di una grande energia positiva che avvolgerebbe tutti.
Invece le persone per lo più purtroppo rinunciano alla fantasia, si omologano, si conformano a più livelli: nei discorsi, nelle relazioni, nelle manifestazioni del proprio pensiero. Liberare all'esterno i propri sogni potrebbe portare ad una umanizzazione di ciascuno di questi profili.
Il sogno anche nella dimensione di confronto, di relazione più banale ci fa sentire per quello che siamo, esseri votati all'empatia, e rende prezioso il singolo momento di vita che sta scorrendo.

Discorso sulla società meccanica

Viviamo in un contesto profondamente deviato, deviato in tutto e per tutto rispetto alla prospettiva umana. La società – possiamo chiamarla con qualsiasi etichetta – capitalista, occidentale, industrializzata etc. etc., in ogni caso, questa società è lontana anni luce dall’uomo. La parola uomo non esiste, è pronunciata in modo menzognero, ingannevole, truffaldino.

I rapporti umani, di qualsiasi grado e livello, seguono regole precise, non sono né liberi né anarchici. La socialità è piegata alle regole della produzione: produzione di piaceri, soddisfazione di bisogni, eliminazione di svantaggi, creazione di potere. Potere economico, potere fisico, potere sociale. Il principio ispiratore è quello del rapporto classe dominante-classe dominata; e questo nella mia visione del mondo si riproduce a tutti i livelli. Dalla nazione all’industria agli schemi sociali alle relazioni tra individui. Ognuno percepisce l’altro come strumento potenzialmente idoneo a creare ricchezza e soddisfare bisogni individuali ed impulsi egoistici. Nella maggior parte dei casi – nella vita che si sviluppa nella parte di mondo in cui ci troviamo a risiedere – c’è poca verità, c’è poca umanità.

Siamo ragazzi e ragazze cresciuti poco consapevolmente con l’educazione televisiva, con l’esibizione dei corpi come merce di scambio, con la creazione della figura del mito e del successo. Abbiamo dentro di noi l’idea del “meglio” e del “peggio”, del “conveniente” e dello “sconveniente”, dell’”opportuno” o dell’”inopportuno”. Tutto è misurato in termini economici.

Anche il corpo vive questa eclissi: o viene nascosto, frustrato, represso dalle morali religiose conservatrici oppure vive mercificato come strumento di conquista di consenso, come valuta per il successo, per l’accettazione. Il corpo nudo non è più simbolo di bellezza, anticamera di verità: è solo un oggetto, niente di più, al pari del denaro e dei beni materiali che questa società impone di acquistare.

Viviamo nella società dei bisogni indotti: l’offerta crea la domanda e non al contrario. La maggior parte delle cose viene prodotta perché deve essere acquistata e così il produttore crea il bisogno nel consumatore.

Siamo pieni di cose inutili che non ci servono. Siamo consumatori e non essere umani; votanti e non partecipanti, spettatori e non veri attori. Siamo lontani anni luce dalla verità e dalla libertà.

Vale, dunque, solo un principio cardine: “chi si ferma è perduto”. In definitiva, chi è fuori dal coro, chi rallenta gli ingranaggi, chi non mostra di trovare piacere ed agio nella società del consumo non esiste perché esiste solo ciò che viene percepito come esistente secondo le regole del gioco.

In questo sistema di relazioni ed in questo ordine di conflitti l’omologazione è la legge universale indistruttibile; si tratta di una legge che non conosce regole, sottile, invisibile, in grado di avvolgere anche le menti più raffinate. Essa gioca sulla debolezza, sul bisogno di socialità, sul senso di affermazione dell’io, sulla vanità. In questo modo, anche l’individuo intelligente cede alla tentazione oscura dell’omologazione perché stare fuori realmente dal coro significa letteralmente morire. Omologazione significa accettare di mutare atteggiamento, opinione, comportamento solo per compiacere gli altri, solo per avere approvazione, potere, per essere accettati, per non restare soli e sconfitti nel conflitto degli ordini sociali.

Attraverso l’omologazione passa e si accetta tutto: anche le menti sensibili accettano il gioco della meccanizzazione dei sentimenti, la pratica delle mode e delle voci di massa. Tutto ciò per la paura del vuoto, del nulla.

La mia visione del mondo, allora, è il rifiuto totale di questo ordine giuridico e morale. Io rifiuto l’omologazione per sopravvivere alla società meccanica, per non essere schiacciato dalla moda dell’estinzione dell’individuo libero, diverso, in grado non solo di pensare ma anche di sentire.

Come dice Chaplin nel Grande Dittatore “pensiamo troppo e sentiamo poco”.

E allora anche io mi nascondo, mi inabisso. Ma anche questa è una reazione deprecabile perché cedo alla regola borghese che tutto vieta al di fuori di ciò che è borghese.

Però rifuggo dall’idea del suicidio: nella mia visione del mondo la vita non si ripete, è un’opportunità. Nasciamo, viviamo, moriamo ed è proprio per questo che ciò che conta è il “come” vivere.

Ci posso essere quattro strade allora:

1) Vivere nascosti, nell’ombra, fingere di essere borghesi pur avendo animo anarchico e nascondere, celare ogni attimo della nostra vita libera. Da questo punto di vista, la ragione di ciò potrebbe anche essere il disprezzo ed il rifiuto di questo mondo che non merita la nostra limpidezza e la nostra sincerità.

2) Agire liberamente, in solitudine, rifiutando il mondo con le sue regole insulse e vivendo liberamente del proprio sentimento di vita, senza desiderare la condivisione con altri esseri incapaci di capirci. In tutto questo, però, nel nostro rifiuto del mondo essere liberi ci consente di uscire allo scoperto, alla luce del sole, denudandoci di tutti i limiti borghesi.

3) Vivere una vita alla ricerca delle piccole condivisioni, dei piccoli spazi. Parlare sinceramente con tutti ma aprirsi solo a pochi eletti che davvero sono simili a noi, anime disperate alla ricerca della verità. Questo è realmente possibile ed io forse cerco di praticare con tenacia questa strada.

4) Aprirsi al mondo come rifiuto del mondo stesso. Sovvertire il sistema facendo gruppi numerosi che possano ascoltare, diffondere una parola di verità a tutti. Andare per il mondo cercando di prendersi il mondo stesso, sentendolo parte essenziale di sé, da sottrarre all’egemonia degli uomini malvagi. Questa è la strada più difficile e non so se la praticherò mai realmente nella mia vita perché è resa ardua proprio dalle sirene dell’omologazione a cui anche gli uomini intelligenti non si sottraggono.

Io, comunque, non credo nella scelta di sparire e non lasciare traccia di sé. Mi sembra una rinuncia, l’accettazione del fallimento; è chiaro, infatti, che se non lasci traccia di te a nessuno importerà qualcosa, nessuna se ne farà un problema. Non voglio cancellare le mie impronte però sicuramente mi sento da sempre esiliato, escluso, fuori posto, decontestualizzato. Eppure temo che questa sia la mia condizione esistenziale perché, probabilmente, molto più semplicemente, questo è il risultato della mia modalità di approccio alla realtà. Io sono questo, cioè sono una persona che, comunque vada, guarda gli altri con diffidenza, con un po’ di timore, che vuole stare due passi lontano dal mondo perché sento troppo l’urgenza di capire le cose prima di viverle. Al contempo non riesco a rinunciare alla vita; sento un legame millenario che mi lega ad essa e non avrò mai la forza necessaria per togliermela, per privarmene realmente.

Posso solo aspirare a conservare dentro di me le facce e le parole che stanno dietro ai miei silenzi e conservarle per le pochissime (una, due o tre) persone che hanno la pazienza, la curiosità, la sensibilità per ascoltarmi. Per il resto, mi auguro di poter vivere a lungo per aprirmi di più al mondo.

Vorrei sentirmi di più parte dell’esistente; non degli uomini, con le loro stupide mode, le loro irruenti mutazioni di costume, le loro sciocche dipendenze dalle contingenze e dai tempi. Vorrei sentirmi membro della vita collettiva, del mondo animale, del pianeta con i suoi problemi e vorrei che anche una sola mia parola, un mio piccolissimo gesto fosse in grado di fare la Storia nel senso più profondo del termine. Comincio a pensare senza più dubbi che le parole ed i piccoli gesti cambino il corso delle cose, che chi salva anche una sola vita (umana o animale) salvi il mondo intero e che ci possano essere pochi, pochissimi giusti che nel silenzio ogni giorno salvano il mondo dalla catastrofe.

Ecco, questa mi sembra una possibile prospettiva alternativa al mito del suicidio come rifiuto di un mondo ignobile ed inferiore a noi od alla scelta della cancellazione delle proprie tracce, come forma eventuale di mediazione con il fatto di restare in vita.

Mi sento solo, questo è chiaro. E’ da una vita che mi sento solo, solissimo, spesso quasi perduto. Però ho avuto la fortuna di condividere il mio percorso con persone abili a farmi dimenticare per un attimo la mia profonda, congenita solitudine. Ed a queste persone dirò sempre, ogni attimo della mia vita, anche nei futuri ricordi, grazie per il bene che mi danno.

Ma devo affrontare da solo il mio cammino, anche contro me stesso.

Io continuo il viaggio, sapendo che sarà dura ma voglio pensare a tutte le parti di mondo che non ho ancora visto, alle persone che esistono oltre quelle che vedo abitualmente, alle cose che non so, ai libri che ancora devo leggere, a tutte le parti di mondo che, in definitiva, non fanno ancora parte della mia solitudine.

Spero di riuscire nell’impresa.


La voce della pioggia (da Foglie d'erba, Walt Whitman)

E tu ci sei? chiesi alla pioggia che scendeva dolce,

e che, strano a dirsi, mi rispose, come traduco di seguito:

sono il Poema della Terra, disse la voce della pioggia,

eterna mi sollevo impalpabile su dalla terraferma e dal

mare insondabile,

su verso il cielo, da dove, in forma labile, totalmente

cambiata, eppure la stessa,

discendo a bagnare i terreni aridi, scheletrici, le distese di

polvere del mondo,

e ciò che in essi senza di me sarebbe solo seme, latente,

non nato;

e sempre, di giorno e di notte, restituisco vita alla mia

stessa origine, la faccio pura, la abbellisco;

(perché il canto, emerso dal suo luogo natale, dopo il

compimento, l’errare,

sia che di esso importi o no, debitamente ritorna con

amore.)

La felicità domestica (L. Tolstoj)

"Ho vissuto molto, e ora credo di aver trovato cosa occorra per essere felici: una vita tranquilla, appartata, in campagna. Con la possibilità di essere utile con le persone che si lasciano aiutare, e che non sono abituate a ricevere. E un lavoro che si spera possa essere di una qualche utilità; e poi riposo, natura, libri, musica, amore per il prossimo. Questa è la mia idea di felicità. E poi, al di sopra di tutto, tu per compagna, e dei figli forse. Cosa può desiderare di più il cuore di un uomo?"

La tua libertà (F. Guccini)

Oltre le mura della città un orizzonte insegue un orizzonte;

a un’autostrada, un’altra seguirà, gli spazi sono fatti per andare;

la tua libertà, se vuoi, la puoi trovare.

E un uomo saggio regole farà, una prigione fatta di parole;

i carcerieri di una società ti impediranno di cercare il sole;

la tua libertà, se vuoi, la puoi avere.

Fossi un uccello alto nel cielo potrei volare senza aver padroni;

se fossi un fiume potrei andare rompendo gli argini nelle mie alluvioni

E boschi e boschi cerco attorno a me

dov’è la terra che non ha barriere?

dov’è quel vento che ci spingerà come le vele o le bandiere;

la tua libertà se vuoi la puoi avere.

Fossi un uccello alto nel cielo potrei volare senza aver padroni;

se fossi un fiume potrei andare rompendo gli argini nelle mie alluvioni

Ma sono un uomo uno fra milioni e come gli altri

ho il peso della vita e la mia strada lungo le stagioni può essere breve, ma può essere infinita;

la tua libertà cercala, che si è smarrita.

cercala, che si è smarrita

La tua libertà (F. Guccini)

Oltre le mura della città un orizzonte insegue un orizzonte;

a un’autostrada, un’altra seguirà, gli spazi sono fatti per andare;

la tua libertà, se vuoi, la puoi trovare.

E un uomo saggio regole farà, una prigione fatta di parole;

i carcerieri di una società ti impediranno di cercare il sole;

la tua libertà, se vuoi, la puoi avere.

Fossi un uccello alto nel cielo potrei volare senza aver padroni;

se fossi un fiume potrei andare rompendo gli argini nelle mie alluvioni

E boschi e boschi cerco attorno a me

dov’è la terra che non ha barriere?

dov’è quel vento che ci spingerà come le vele o le bandiere;

la tua libertà se vuoi la puoi avere.

Fossi un uccello alto nel cielo potrei volare senza aver padroni;

se fossi un fiume potrei andare rompendo gli argini nelle mie alluvioni

Ma sono un uomo uno fra milioni e come gli altri

ho il peso della vita e la mia strada lungo le stagioni può essere breve, ma può essere infinita;

la tua libertà cercala, che si è smarrita.

cercala, che si è smarrita

Cose che fanno bene. Pensando a Niccolò Fabi.

Vedere il sorriso di Francesco mi fa ricordare da che parte stare, mi fa pensare quale sia davvero il mio posto.

Mi fa pensare che la strada è quella giusta.

Pensare al sorriso di Francesco, allo stare insieme, tutti insieme, mi fa vedere cosa sia davvero il mondo, il mio mondo.

Un mondo forse piccolo, fatto di cose piccole, leggere, forse noiose, forse banali, forse normali.

Però il mio mondo, un mondo libero, senza servi, senza "grazie" per nessuno che non lo meriti, un mondo di cose vere e di parole che hanno un senso.

Restare dritti ed essere allegri, vivi, partecipi è cosa difficile però oggi credo che certe cose sono essenziali semplicemente perchè fanno bene. E le cose che fanno bene sono importanti perchè sono le uniche cose che restano e, quindi, le uniche cose che servono.

La barca oscilla, il mare mi fa ondeggiare ma resto a galla perchè ho le mie fortune, ho i miei piccoli capolavori di cui andare fiero perchè ho capito come saperli riconoscerli e sapermene ricordare quando serve.

E allora ogni volta che vedo il sorriso di Francesco penso ad una nuova vita che si sta adesso accostando al mondo; che, piccolissima, fragile, leggera, si avvicina all'inizio di questa lunga, assurda strada in cui siamo precipitati da pianeti lontani.

E penso alla tenerezza di chi si avvicina al mondo con quel sorriso e quegli occhi ricolmi di stupore.

Vorrei tenere fermo quello stupore e quel sorriso e sentirli ogni volta che sento la vita come una cosa difficile, ogni volta che non capisco gli altri, ogni volta che qualcosa mi delude.

Le piccole cose sono le mie cose, mi appartengono e sono le cose che fanno bene.

Le cose che fanno bene siamo noi; noi piccoli viaggiatori che, nonostante tutto, continuiamo ingenuamente a sorridere ed a credere che ciò abbia un senso importante.

Ci sono cose che sono intoccabili, ci sono cose che nessun male del mondo può raggiungere. Né l'invidia della gente, nè l'egoismo o le parole false. Nessuna di queste può far finire quella scintilla, quella fiamma che sento dentro.

C'è una fiamma accesa che non morirà mai ed è quella convinzione di andare verso il bene, verso le cose che fanno bene a me ed al mondo che mi gira attorno.

Sorridere, ascoltare, parlare senza alzare la voce, cedere il passo, cedere il posto, vedere un altro come un fratello, vibrare per la presenza di un'anima sensibile, guardare il sole, guardare il mare, ascoltare la pioggia o il vento, guardare gli alberi, toccare il corpo di una donna che amiamo, abbracciare un vero amico, incontrare ogni volta le persone a cui vuoi bene e sapere con gioia che ancora ci siamo, ancora esistiamo, ancora siamo parte di questo mondo che gira, di questo carillon che suona senza fine.

Trovare il mio posto nel mondo, immaginare dove andrò e cosa sarà domani. Chiudere gli occhi e continuare ad essere felice, vada come vada.

Per le persone che ho incontrato, per le persone che mi vogliono bene e per chi non sono riuscito a capire.

Vada come vada, ricordarsi delle piccole cose. Cose che fanno bene.

Quello che mi serve

Tutto quello che mi serve è l’amore. Non mi importa del resto. Non mi importa di tutto quel prendere, di tutto quell’arraffare corpi, di raccogliere conquiste e numeri.

Tutto quello che mi serve è solo l’amore. Conoscere un essere unico, inimitabile nel suo profondo. Sentire la sua unicità, sentire il bisogno indomabile di rendere felice quell’essere e di gioire della sua gioia.

Non mi interessa raccogliere potere, fare degli altri il campo di espansione del mio ego stupido. Non mi interessa dire di avere avuto mille donne, non mi importa avere attraversato mille storie solo nei loro primi cinque minuti. Tutto quello che mi serve è solo e soltanto l’amore. L’amore di una sola persona è quello che voglio, quello che mi serve.

Non mi interessano i soldi, non mi serve il prestigio o l’approvazione della gente. Non mi curo dell’invidia. Non guardo a queste cose, non mi interessano. Mi serve solo l’amore, quello che non può finire mai.

Non mi interessa faticare per avere mille oggetti inutili, voglio solo faticare per amare il più a fondo ed il più a lungo possibile. Mi serve solo l’amore per sentirmi vivo. Non voglio altro. Mi serve solo l’amore.

Non mi interessa aumentare la stima di me stesso attraverso l’amore di un altro essere. Mi interessa costruire il mio amore immenso. Mi interessa soltanto sentirmi continuamente affamato di un altro essere, affamato della sua gioia.

Questo è ciò che mi serve e che non può finire mai. Tutto il resto è davvero inutile e tutto il resto passa stupidamente e troppo velocemente. Tutto il resto non mi interessa.

Mi interessa solo questa musica, che non potrà finire mai.


Rubai (N. Hikmet)

È l'alba. S'illumina il mondo

come l'acqua che lascia cadere sul fondo

le sue impurità. E sei tu, all'improvviso

tu, mio amore, nel chiarore infinito

di fronte a me.

Giorno d'inverno, senza macchia, trasparente

come vetro. Addentare la polpa candida e sana

d'un frutto. Amarti, mia rosa, somiglia

all'aspirare l'aria in un bosco di pini.

Chi sa, forse non ci ameremmo tanto

se le nostre anime non si vedessero da lontano

non saremmo così vicini, chi sa,

se la sorte non ci avesse divisi.

È così, mio usignolo, tra te e me

c'è solo una differenza di grado:

tu hai le ali e non puoi volare

io ho le mani e non posso pensare.

Finito, dirà un giorno madre Natura

finito di ridere e di piangere

e sarà ancora la vita immensa

che non vede non parla non pensa.


La maggioranza

"M'è odioso essere scaltro, pensava il capitano, quando realmente non ti senti scaltro e non desideri esserlo. Procedere serpeggiando, fare progetti e sentirti grande mentre li fai. Odio questa sensazione di credere di fare ciò ch'è giusto, quando non sono affatto sicuro di farlo. Chi siamo noi, del resto? La maggioranza? E' questa la risposta? La maggioranza è sempre sacra, non è vero? Sempre, sempre; non sbaglia mai, nemmeno per una minuscola frazione d'un minuscolo insignificante momentino? Mai una volta nemmeno in dieci milioni di anni'? Ma in fin dei conti, pensava il capitano, che cos'è questa maggioranza e da chi è composta? E che cosa pensa?, come fa a fare quello che fa, non cambierà mai? E io, soprattutto, come ho fatto a trovarmici in mezzo, a questa marcia maggioranza? Non mi trovo bene, io. Si tratta forse di claustrofobia, di paura della folla, o semplicemente di buon senso? Può un uomo solo avere ragione, mentre tutto il resto del mondo è convinto di avere ragione lui? Meglio non pensarci. Strisciamo pure come serpi, pronti a colpire e tiriamo pure il grilletto al momento giusto. Su, forza!"

(da Cronache marziane, Ray Bradbury).

Gente di destra

Non sono una persona radicale, in fondo. Credo nel valore del dialogo, apprezzo il valore della diversità culturale; parto dall'idea che incontrare l'altro sia soltanto formativo per la mia esperienza umana; mi piace pensare che una prospettiva di lettura della realtà e della società possa costituire momenti di arricchimento. Credo profondamente che la democrazia e la civiltà di un Paese si fondino sul livello di garanzia del pluralismo e sulla libertà di confronto tra maggioranza e minoranza. Credo nel rispetto delle idee altrui.

Tuttavia, credo anche nella libertà intellettuale come valore assoluto che deve guidare i comportamenti prima ancora delle parole.

Ed allora mi dispiace dire adesso qualcosa che potrebbe colpire i miei contatti di un'area politica ben definita perchè tra loro ci sono anche persone che stimo molto ed a cui voglio molto bene.

Però penso che sia il momento di dire basta al fatto di pensare che nella destra Berlusconiana ci siano tante persone valide con cui provare a tessere un dialogo costruttivo. Purtroppo, quell'area politica raccoglie molta gente che ha come valore di riferimento il denaro, il carrierismo, le forme di distribuzione della ricchezza indifferenti allo stato sociale ed ai poveri; raccoglie molta gente che vede negli oggetti i simboli della felicità, che non è non aperta al dialogo, che vede nella gente di sinistra gente "deviata", che quando si parla di diritti ed uguaglianza ti guarda come un eretico terrorista; che ha il mito del divertimento frivolo e senza contenuti, che non ha il minimo interesse per la cultura di contenuto e che sempre è pronta a giustificare interventi militari, critiche alla magistratura, contrasto agli immigrati al limite dell'umanità, politiche del precariato o, persino, a provare goffamente di trovare giustificazione a qualche presunta ed ancestrale pseudo etica mafiosa.

Io sono stanco di questa cultura indifferente al bene comune ed ai contenuti.

Non credo più all'idea che si possa costruire un dialogo effettivo. Ci ho provato, spesso, più volte. Ho provato a superare i miei naturali pregiudizi, ho fatto la mia parte. Sono andato al di là dell'apparenza, al di là dell'attenzione per il vestito costoso, al di là delle parole nette, delle poche aperture al dialogo. Ho cercato di superare la barriera, di comprendere le ragioni dell'altro, di esporre i miei punti di vista senza disprezzare quello dell'altro. Ho cercato di non essere razzista e superbo come molti di sinistra usano fare. Ho cercato di porre discussioni sul piano degli argomenti anziché su quello dei simboli. Ho dato la possibilità di spiegarmi, di farmi capire, di imparare qualcosa.

Adesso però ho capito chiaramente che c'è poco da imparare e da capire. La maggior parte dei pidiellini di questo Paese è gente indifferente ai problemi del Paese, passiva culturalmente, interessata solo al proprio orticello, per nulla propensa a mettersi in discussione, chiusa ed assai faziosa. La maggior parte di quella gente è legata a valori assurdi, fondati sulle sciocchezze che Berlusconi ha propinato a questo Paese in decenni di dittatura televisiva.

E' tempo allora di segnare profonde differenze tra chi sta da una parte e tra chi sta dall'altra. Possiamo trovare sempre punti di contatto nel dialogo ma non possiamo fingere che ogni posizione vada bene ed ogni parola sia eguale. Il valore è dato dalle scelte e dalle differenze tra le persone. Io non mi sento parte di questo sistema culturale, io ne sono estraneo e rivendico la mia diversità. Ovviamente questo non implica che sia miope dinanzi alle bassezze culturali della sinistra più borghese ed opulenta. Sono ben consapevole dei guasti che ha portato una parte del mondo del '68 a questo Paese, visto che i figli di quella rivoluzione oggi sono panciuti professori universitari che predicano cose retoriche e senza senso dagli scranni di un potere per pochi.

Però io sono per gente come Saviano, come Lirio Abbate, come Zagrebelsky, come Rodotà, come Rosario Crocetta. Io non sono per "tutto quello che è di sinistra va bene"; io sono molto critico perchè rivendico la mia libertà intellettuale. Ma sono bene da che parte mi trovo e quale è la mia identità.

D'ora in avanti posso propormi solo di apprezzare e difendere quelle singole persone di destra, oneste, che conosco personalmente che mi hanno dimostrato nel tempo di avere valori solidi, intelligenza, libertà intellettuale e delle quali posso solo parlar bene perchè, al di là, dell'affetto ne riconosco il primato morale. E queste persone non vanno neppure nominate perchè sanno che mi riferisco a loro.

Per il resto non apprezzo il modello culturale che è stato proposto in Italia come prevalente in questi ultimi dieci anni. Esso va fortemente criticato e superato per far risorgere questo Paese dallo stato di scarso amor proprio e poca dignità etica in cui oggi si trova a vivere e del quale, tutti quanti noi, senza distinzioni subiamo le fastidiose conseguenze.

Persone di consumo e consumo di persone

Ho letto da qualche parte che siamo una società liquida. La liquidità delle cose non trova differenza nella liquidità dei rapporti e delle persone. Siamo immersi in un fluido generale, un blob che travolge tutto mistificando uguaglianza, eliminando le differenze, degradando i valori delle cose e delle persone ad assiomi tutti uguali perché senza contenuto.

Siamo davvero una società liquida, in cui l’unica cosa consistente per la maggioranza delle persone sono i beni di consumo: i beni di consumo sono l’unica cosa tangibile. Il consumismo non ha creato solo l’abitudine al consumo ma ha creato una figura nuova: il valore del consumo. Il concetto fondamentale delle nostre società occidentali – e, quindi, di quella italiana – è che ogni cosa è destinata a fluire, ad avere un momento di esposizione nella vetrina, un momento di scelta, un momento di acquisizione, un momento di consumo, un momento di smaltimento.

Il punto problematico di questo fenomeno è che il meccanismo dei beni di consumo e del consumo dei beni come valore assoluto della società liquida fa sì che la nostra cultura di massa non riesce sempre ad astrarre il concetto di cosa ed il concetto di persone. La cronaca dimostra che il denaro compra tutto, persino i corpi, persino la dignità, persino la libertà. E se il denaro compra tutto significa che tutto è in vendita, cioè che anche le persone sono cose a cui applicare le regole dei beni di consumo.

Le persone sono beni di consumo, non per me ovviamente. Ma per la maggior parte delle persone la cultura del consumo non distingue tra l’individuo, il vestito e la macchina perchè, in fondo, ciò che compone il valore di un bene, in senso lato, è la sua fungibilità e la sua disponibilità per l’acquisizione sul mercato. E, in questo senso, persone sul mercato ce ne sono tante come, allo stesso modo, i centri commerciali espongono ogni tipo di merce.

Credo che sia un meccanismo inarrestabile. La televisione insegna che il tempo non è più il tempo del sole e della luna o il tempo dell’anima o il tempo della strada da percorrere tra una città e l’altra. Il tempo è solo il tempo televisivo: l’essere presente o l’essere assente, l’essere visibile o l’essere invisibile, l’essere sul mercato o l’essere fuori mercato, l’essere prodotto di consumo, prodotto ancora vendibile o invece prodotto ormai in scadenza.

E, così allo stesso modo, i rapporti tra alcune persone si sviluppano secondo il dogma della fungibilità: le persone sono beni accessibili, disponibili sul mercato ma perfettamente sostituibili. La presenza di una persona, la sua importanza, dipende dalla sua capacità di soddisfazione di bisogni egoistici, il valore di una persona dipende dal suo potere “mediatico”, cioè dalla sua capacità di suscitare attrazione nel sapersi proporre come prodotto vendibile. Ed in questa legge di consumo diffuso il valore speciale, profondo dell’essere individuo diventa una sorta di aspetto mediaticamente fallimentare. Parlare di sé, dei propri dubbi, dire “questo non mi piace” equivale a proporsi come quei programmi di approfondimento sui temi dell’economia che la Rai ogni tanto manda in onda a notte fonda e che solo qualche pazzo scriteriato insonne riuscirà a vedere, in preda ai fumi di qualche sostanza più o meno lecita.

Questa è la cultura in cui siamo depositati. Possiamo combattere per un alternativa?

Io credo nel valore della responsabilità. Credo nel principio di esigibilità. Credo che le nostre scelte provengano da un margine di libertà che anche noi stessi con la nostra critica e la nostra lotta siamo in grado di concederci.

Ma il rimprovero o l’assenza di rimprovero che si collega all’esigibilità di un comportamento presuppone in primo luogo il raggiungimento nell’individuo di uno stadio di consapevolezza e di libertà che consenta la valutazione necessaria per una scelta responsabile. Se manca la libertà di scelta o se questa è fortemente limitata (come nello stato di necessità, come nella coazione morale, come nel vizio di mente) il senso di valore o di disvalore di un comportamento risulta necessariamente e proporzionalmente condizionato. Se la libertà è quella che ci concedono i media (gli imbonitori che suggeriscono diete smaglianti e futuri trionfanti , come diceva Guccini) la nostra responsabilità discende inevitabilmente da quella fetta magra di spazio del consenso che ci è concessa. In questo modo, gli italiani, per lo più, sono diventati passivi in tutto: passivi davanti al televisore, passivi nelle scelte di consumatori di beni, passivi nelle scelte – in termini eguali – di consumatori di persone e di rapporti. Il livello di consapevolezza e quindi di esigibilità applicabile è quello che si applica a dei bambini o a degli infermi di mente.

Abbiamo il risultato di una società di massa composta da molte persone facilmente plasmabili, passive, poco evolute e, dunque, irresponsabili. Questo è il risultato a cui mirano i media e gli strateghi del marketing: studiare i comportamenti, le relazioni umane, gli spazi di scelta delle persone e limitare questi spazi di scelta orientando i nostri bisogni. Nella massa gli spazi di scelta vengono annullati a zero perché i bisogni vengono creati artificialmente; i media non concedono alcuna libertà perché educano i giudizi e le analisi delle masse nella creazione della percezione del bisogno e nella costruzione di una forma personale di felicità. La felicità non è più un bene individuale, unico, personale: la felicità è un prodotto di mercato, condiviso in una dimensione comune. Essere felici o cercare di essere felici non è più un’esperienza unica, libera; non è più una ricerca, una conquista difficile, travagliata ma libera. Essere felici equivale semplicemente ad applicare alcuni parametri che i media hanno costruito e, sulla base di quelle coordinate imposte, operare una scelta del bene o della persona migliore. La scelta, dunque, anche di una persona non è più una scelta libera, individuale; anch’essa è solo il prodotto prevedibile, ripetibile, conoscibile, di una scelta di mercato.

Il problema, dunque, è proprio qui. Il vortice della schiavizzazione alla cultura del consumo non ha avuto freni e non ha distinto tra cose e persone, creando una pericolosissima identificazione fra res e corpo. In questo stato di cose l’anima, i sentimenti delle persone (o come preferite chiamare il frullatore che abbiamo dentro) non hanno alcun ruolo; sono, al contrario, un ingombro nella misura in cui non si possono vendere o non si possono comprare.

I media hanno modificato i costumi di questo Paese, hanno creato un fascismo dei sentimenti che impone modelli di linguaggio conforme, standardizzato, omologato insostenibili nella costruzione di identità consapevoli.

Cosa possiamo esigere da un popolo di lobotomizzati dalla televisione berlusconiana? Cosa possiamo attenderci dai figli di Maria De Filippi, Alessia Marcuzzi, Simona Ventura e Barbara D’Urso? Cloni, cloni di corpi perfetti senza anima che inseguono altri corpi perfetti senza anima e che, come nel cambio d’abito di Sanremo, li sostituiscono con nuovi corpi perfetti senza anima.

Le persone sono plasmate dalla violenza e dalla aggressività di un programma come “Uomini e donne” fino alle ossa; si tratta di un esperimento di educazione delle masse senza precedenti, che accomuna queste ninfette e questi galli palestrati ai giovani balilla di un tempo. Tutti soldati pronti alla guerra del consumo di massa: creare individui e relazioni umane in cui è la res (e, dunque, il profitto) il criterio di orientamento e non la persona con la meravigliosa portata anarchica dei sentimenti. Gli strumenti di seduzione non sono più le parole, sono gli oggetti; il prezzo di un legame è il potere di acquisto di una persona; solo il bisogno individuale e la propensione al consumo animano la tensione verso qualcuno. E’ uno stato assolutamente mercificante dei rapporti umani; un’apocalisse di esseri reciprocamente consumanti e consumati. E ci sono pochi rimedi.

E’ necessaria la critica, la ribellione alla società del consumo perché nessuno di noi è un bene fungibile, nessuno di noi è sostituibile. Io credo nel valore della persona; io credo nella potenza anarchica dell’amore. Ognuno di noi è una storia unica; il valore di una persona è quello di un capolavoro assoluto, senza prezzo. Dobbiamo aprire le catene della schiavitù del consumo per avere una libertà maggiore da cui far discendere un maggior livello di responsabilità.

La massimizzazione della critica porta ad una massimizzazione della libertà e, dunque, ad un incremento del nostro livello di esigibilità di comportamenti più umani, più consapevoli, meno meccanici, meno robotici nelle relazioni umani.

Dobbiamo spegnare la televisione e aprire gli occhi e le orecchie e educarci di più all’amore, al vederci nudi e senza abiti.

Dobbiamo recuperare la forza della parola e della sincerità: gli attimi sono troppo sfuggenti ed il tempo sempre troppo poco. Io voglio una società più umana, in cui ci siano più anarchici e meno robot, più abbracci e meno frasi di situazione.

Se nessuno dovesse spegnere la tv o, almeno abbassare un po’ il volume, teniamoci stretti quei pochi veri amici che ci sono rimasti e si salvi chi può.

Se tutto vuole andare in malora che ci vada pure, ma almeno non a nome mio.

La precarietà dei sentimenti

Il cambiamento della nostra società ha prodotto cambiamenti nelle persone, oltre che nella politica e nell’economia. L’aspirazione alla sicurezza economica ed alla tranquillità sociale adesso, nelle menti delle persone, è forte come lo è quella alla sicurezza ed alla certezza dei rapporti e dei sentimenti.

Ormai la nostra società è definitivamente uscita dalla generazione del benessere diffuso. Ed il problema della precarietà nasce proprio da quel passato: abbiamo tutti, più o meno, vissuto abituati alla regola della possibilità, della fiducia, della sicurezza verso le cose future.

Adesso quel senso di sicurezza si è tramutato in speranza, aspirazione. I sogni delle persone vanno tutti nella direzione del sogno della stabilità: si sogna di trovare un lavoro, anche precario, anche part-time, anche poco pagato; si sogna, da lì, che il lavoro diventi a tempo indeterminato, che diventi full-time, che diventi meglio remunerato; si sogna la possibilità di pagare l’affitto di pochi metri quadri e, da lì, si sogna l’affitto di una casa di quattro stanze fino al sogno incredibile di un mutuo per l’acquisto di un immobile, vero nido di pace sociale e sicurezza.

In questo trapasso, i sentimenti sono diventati ancora più precari di quanto non siano l’economia e lo stato sociale. I sentimenti hanno, più di ogni altra cosa, subito la crisi.

Il mistero del futuro, l’impossibilità di sapere cosa accadrà fra qualche anno, la sensazione che comunque qualcosa, nel quadro degli eventi della nostra vita, non dipenda dal nostro impegno o dal nostro ottimismo creano inquietudine, precarietà nel nostro modo di considerare la presenza anche di chi ci sta vicino. Viene meno la sensazione che chi abbiamo accanto possa restare per sempre, qualsiasi cosa accada, perché sembra che tutti, chi più o chi meno, siano trascinati dal vento della crisi, da una forza superiore che decide, al posto nostro, delle nostre vite.

E, così, la sensazione che le cose potrebbero non essere per sempre, l’incertezza che quel rapporto già costruito possa davvero poggiare sulle basi solide di un lavoro, di un mutuo, di un futuro sicuro portano a ridimensionare il nostro sguardo verso gli altri, verso i sentimenti.

I sentimenti, i rapporti, diventano precari, diventano incerti, legati alle contingenze, al momento, diventano rapporti part-time o in affitto. Si cerca di amare qualcuno ma sempre con la paura di non sapere cosa accadrà, dove finiremo, cosa faremo, dove andremo a finire tra un po’ di tempo. Si vive con la sensazione che tutto possa cambiare da un momento all’altro, troppo velocemente. E tutta questa precarietà dei sentimenti deriva, in realtà, dalla nostra impreparazione a questo stato di cose: siamo cresciuti in un’era in cui avevamo molte sicurezze economiche e sociali, in cui vedevamo i nostri parenti più grandi arrivare a trent’anni e trovare un lavoro, sposarsi, fare due -tre figli entro i quarant’anni, avere una macchina ed un mutuo prima dei trentacinque. Oggi queste cose sembrano sogni meravigliosi, certamente non alla portata di tutti.

Il mondo è cambiato: eravamo abituati al benessere o almeno ad un discreto livello di sicurezza sociale. Oggi invece viviamo nella stessa precarietà con cui altri popoli, altre persone di altri Paesi prima meno ricchi hanno sempre o spesso convissuto.

Non siamo pronti ed attrezzati a questa precarietà sociale, non ci hanno insegnato come si vive in un Paese in crisi, nessuno ci ha spiegato come si fa. Stiamo solo subendo tutto questo, ci stiamo lentamente adattando.

Ed allora, l’evoluzione della specie porta la nostra razza ad adeguarsi ed a vivere anche i sentimenti ed i rapporti umani come prodotti del precariato: non si fanno progetti, si cerca di vivere l’amore alla giornata, di cerca di valorizzare gli attimi, le cose piccole, si cerca di essere fatalisti, di relativizzare le difficoltà.

Nascono coppie, muoiono coppie, alcuni trovano lavoro e continuano a stare insieme a distanza, altri trovano lavoro e dopo tanti anni si lasciano, altri si lasciano perché non trovano lavoro, altri riescono a stare insieme proprio perché non hanno un lavoro e quindi hanno più tempo per vedersi. Tutto gira attorno alla parola lavoro che, una volta, era per gli italiani una parola normale; oggi è diventata una parola proibita, una specie di mistero.

Quando dici di avere un lavoro a tempo indeterminato la gente ti guarda ormai come se avessi una Ferrari.

La precarietà sta cambiando i costumi degli italiani profondamente, sta cambiando il loro modo di vivere le relazioni umane. Stiamo diventano più flessibili, più simili, in questo, alle società anglosassoni, dove da sempre tutto è più veloce e più flessibile, ma dove, tuttavia, tutto ciò è compensato da tendenziali maggiori opportunità e possibilità di crescita.

Nel frattempo i Paesi che economicamente ci stanno ancora dietro (Albania, Tunisia, Egitto) vedono le ribellioni delle piazze consumarsi proprio in questi giorni in cui mi interrogo sulla precarietà dei sentimenti.

Mi chiedo in quale periodo della loro vita quelle persone, che oggi lottano e manifestano con coraggio, o i loro genitori o persino i loro nonni abbiano chiesto a sé stesse come confrontarsi con questa forma di precarietà. Mi rispondo che forse io, nonostante tutto, da italiano, sono ancora un piccolo privilegiato perché almeno posso stare a interrogarmi su queste cose vedendo qualche possibilità futura e non mi trovo ancora in un Paese a quello stadio di reale disperazione.

Mi chiedo quanto tempo ci separi per il passaggio dal tempo della precarietà dei sentimenti al tempo delle sassaiole in tutte le piazze.

Riusciremo, a quel punto, a far evolvere la specie ancora una volta, da precario a rivoltoso che non ha più nulla da perdere?

Coltiviamo la fiducia, non costa nulla e non abbiamo alternative. Nel frattempo, consoliamoci pure con i nostri amori pagati a cottimo.