venerdì 21 ottobre 2011

Fratelli

Per ora per me non è un periodo semplice.

Sono in una fase della mia vita in cui tante certezze sono venute meno, per varie ragioni.

Forse sono da sempre stato una persona poca preparata per affrontare la realtà e troppo concentrato sui sogni, sulla prospettiva dell’altrove, del superare ad ogni costo il limite.

Adesso invece la realtà mi sta facendo vedere tutto il suo vero volto.

E’ difficile essere forti, ostinati ad inseguire sé stessi, non cedere, continuare a credere nei propri sogni, a non avere paura, a non farsi condizionare dalla maggioranza, dal vento che tira attorno a te.

E’ difficile restare integri, fedeli ai propri sogni, continuare a coltivare ognuno di essi e pensare che solo la capacità di sognare mi ha alimentato finora come energia vitale; solo la capacità di sognare mi ha consentito di essere diverso e di considerarmi una persona speciale.

I sogni vanno difesi, protetti, non vanno lasciati alla mercé di tutti, di un mondo troppe volte cinico, crudele, passeggero, ostinatamente rivolto al profitto, al guadagno, al vantaggio personale.

Sto vedendo attorno a me, in questo nuovo mondo da adulto, troppo egoismo, opportunismo, falsità. Non ero preparato a questo genere di mondo.

Ogni bugia, ogni menzogna porta a qualcuno una moneta in più ma a me porta ancora più dolore nel vedere che siamo sempre pochi a credere nel rispetto, nella lealtà, nell’amore per gli altri.

Io non posso cambiare, non voglio e non riesco a cambiare. E questa resistenza mi produce dei costi, mi crea dei problemi. Perché il mondo lì fuori è diverso da me; è un mondo fatto di pioggia e fango che prova ogni giorno a travolgerti, a farti cadere.

E il crine sottile su cui continuo a volteggiare è sempre lo stesso; perennemente in bilico tra il sentirmi fieramente ed ostinatamente diverso e il considerarmi inadeguato, non attrezzato di fronte ad un mucchio di gente che vuole solo celebrare ogni giorno il rito della guerra e del denaro.

In questa realtà che uccide i sogni c’è una sola parola alla quale possiamo restare ancorati per salvarci, per tenere indenne il nostro rapporto sincero con gli altri. E quella parola è fiducia.

E’ la fiducia che salva l’umanità perché mantiene vivo il legame intimo fra gli essere viventi. E’ la fiducia che consente ad ognuno di noi di abbattere gli steccati di solitudine che la legge del più forte impone ad ogni debole di erigere contro la propria volontà.

E’ la fiducia, è solo la possibilità di avere fiducia in qualcuno o qualcosa che alimenta la vera speranza.

La speranza che non valga solo la legge del più forte, la legge del taglione o quella del Dio euro - dollaro - sterlina.

La speranza invece è che esista, in una piccolissima parte, anche la voglia di costruire e praticare concretamente la legge dell’aiuto ai deboli, la legge del perdono verso chi ti ha creato del male, la legge del dare solo per far felice qualcuno o per alleviare il dolore di qualcun altro.

E’ davvero un desiderio così assurdo? E’ davvero una cosa così retorica?

Io non ci credo perché altrimenti non ci sarebbero il vuoto ed il senso di solitudine che molti di noi hanno quando, per un istante, a bordo di questa macchina impazzita senz’anima, si fermano e cominciano a pensare a quello che potrebbe essere il mondo in cui viviamo e che, per ragioni che non riusciamo a risolvere, ancora non è diventato.

Eppure la vita è una sola. Una sola, unica, irripetibile fase di esistenza.

Ed il tempo che abbiamo è solo questo; è quello che passiamo qui, in questa vita.

In un modo o in un altro, questo è il nostro tempo. Forse troppo corto, insufficiente; dipende dai punti di vista.

Eppure è un tempo in cui possiamo essere tante cose; in teoria, tantissime cose diverse fra loro.

Eppure annulliamo, noi stessi, le nostre possibilità ostinandoci a non voler cambiare il mondo, a non voler mutare un corso di cose che sembra sempre uguale, immutabile; composto di leggi che mettono sempre l’amore, il rispetto, l’altruismo, la solidarietà al secondo posto.

Eppure io dico che la sensazione più profonda che l’essere umano è in grado di provare, nelle sue manifestazioni più elevate, è proprio la partecipazione al dolore degli altri.

Il sentimento di condivisione del dolore degli altri è l’esperienza più importante di una vita intera ed è ciò che elimina, per un istante, il senso di inutilità che ingombra i respiri delle nostre giornate nei momenti di minore spensieratezza.

Se volessimo astrarci un attimo dalla sfera infinita dei nostri bisogni, dalle mode veloci della nostra società, dall’istinto di vedere gli altri come strumenti di soddisfazione di un piacere solo nostro, potremmo elevarci, diventare liberi dalle nostre inutili e piccole pulsioni ed entrare in comunione profonda e radicale con la vita intima di tutte le persone che ci passano accanto ogni giorno.

Eppure gli essere umani, nella nostra società, nella società in cui viviamo, sono oggetti, come i vestiti, le scarpe e le macchine ed il nostro bisogno di sopravvivere e di prevalere ci fa dimenticare che l’origine stessa delle nostre mancanze ed insoddisfazioni risiede nell’incapacità di togliere ai nostri simili l’abito di semplici oggetti per ridare loro la veste giusta, quella che li rende uguali a noi.

La veste che fa di me, che scrivo, un essere umano e di quelli che mi stanno attorno, nel bene e nel male, i miei fratelli.

lunedì 5 settembre 2011

L'esistenza di Dio

Non ci sono argomenti. Non ci sono prove. Non ci sono verità possibili, dimostrabili. Eppure il silenzio prende corpo dalla ricerca angosciata di Dio. Dio inteso come via, come senso, come approdo, come significato, come lampo della notte che illumina il mio vagare.

Siamo stati derisi tutti noi che abbiamo cercato di essere atei, ostinatamente presi a difendere la nostra forza di resistenza contro ogni barriera di irrazionale. Eppure è restata accesa quella sete di verità, quel vuoto incolmato di grandezza, di leggerezza, di forza che lungo la strada ci è sempre mancato.

Abbiamo provato in molti a riempiere il dolore con altri mezzi e abbiamo emulato il nostro bisogno con bisogno d’altro. Nella musica, nell’arte, nella riflessione, nel viaggio abbiamo cercato di bere e abbiamo sempre, ancora di più, avvertito la solitudine.

Eppure non vogliamo giungere alla fine come eterni naufraghi ma forse arrivare ad un punto come reduci, sopravissuti ad una guerra senza nome, ad una battaglia che è solo la nostra e non ha gloria.

La ricerca di Dio. Capire se è davvero solo una favola o se la nostra sete di vivere finirà con la fine dei giorni e porterà con sé il vuoto che non abbiamo saputo abbandonare.

Alcuni dicono che Dio non esiste, che siamo già noi, che è qui e che è in quello che esiste. O forse ancora possiamo dire che la vita è adesso e non c’è altro e siamo un insieme di muscoli e di amore che non ripeterà il percorso due volte e deve perciò godere di ogni frutto che l’albero da sé riesce a donare.

Ma io chiedo dove l’albero trova la linfa, dove il ricordo ha avuto origine e dove qualcosa resterà vivo oltre al mero corso della Storia e del Tempo.

Ho paura anche io a cercare Dio, a coltivare forse un’illusione dolorosa. Ma resto anche io assetato di verità. Non so se sono già stato qualcosa prima di essere questo, non so se queste cose esistono.

So che il corpo, a volte, può non essere presente al mondo e che vi sono pensieri che riescono ad andare più lontano di quello che si vede e si tocca. So che c’è una forza percepibile che vorrebbe essere eterno e vorrebbe amare l’intera umanità e renderla libera. So che c’è una mano che vorrebbe scrivere parole che restino oltre la fine del corpo. So che le giornate, quando arrivano alla fine e appare la notte, sembrano troppo piccole per essere salutate. So che il tempo di una vita è troppo stretto per tenervi dentro tutti i ricordi.

Gli abiti, le convenzioni, le regole, le incomprensioni, i conflitti segnano la misura della distanza dalla verità. La verità è nell’idea umana di unità universale. La vita nella sua forza e misura più profonda che non si ripete ma che si rinnova. L’essere, umano e non umano, che non sarà più e che lascia una traccia di sé. Il vivente che combatte il destino della fine e che vorrebbe vivere per sempre e ricordare in eterno. L’essere che, di fronte a questo sogno supremo, non accetta l’idea di essere solo un tratto di penna su un foglio di registrazione nascite e di registrazione morti. L’essere che “sente” un pezzo di eterno già dentro di sé e lo chiama superbamente Dio.

L'esistenza di Dio

Non ci sono argomenti. Non ci sono prove. Non ci sono verità possibili, dimostrabili. Eppure il silenzio prende corpo dalla ricerca angosciata di Dio. Dio inteso come via, come senso, come approdo, come significato, come lampo della notte che illumina il mio vagare.

Siamo stati derisi tutti noi che abbiamo cercato di essere atei, ostinatamente presi a difendere la nostra forza di resistenza contro ogni barriera di irrazionale. Eppure è restata accesa quella sete di verità, quel vuoto incolmato di grandezza, di leggerezza, di forza che lungo la strada ci è sempre mancato.

Abbiamo provato in molti a riempiere il dolore con altri mezzi e abbiamo emulato il nostro bisogno con bisogno d’altro. Nella musica, nell’arte, nella riflessione, nel viaggio abbiamo cercato di bere e abbiamo sempre, ancora di più, avvertito la solitudine.

Eppure non vogliamo giungere alla fine come eterni naufraghi ma forse arrivare ad un punto come reduci, sopravissuti ad una guerra senza nome, ad una battaglia che è solo la nostra e non ha gloria.

La ricerca di Dio. Capire se è davvero solo una favola o se la nostra sete di vivere finirà con la fine dei giorni e porterà con sé il vuoto che non abbiamo saputo abbandonare.

Alcuni dicono che Dio non esiste, che siamo già noi, che è qui e che è in quello che esiste. O forse ancora possiamo dire che la vita è adesso e non c’è altro e siamo un insieme di muscoli e di amore che non ripeterà il percorso due volte e deve perciò godere di ogni frutto che l’albero da sé riesce a donare.

Ma io chiedo dove l’albero trova la linfa, dove il ricordo ha avuto origine e dove qualcosa resterà vivo oltre al mero corso della Storia e del Tempo.

Ho paura anche io a cercare Dio, a coltivare forse un’illusione dolorosa. Ma resto anche io assetato di verità. Non so se sono già stato qualcosa prima di essere questo, non so se queste cose esistono.

So che il corpo, a volte, può non essere presente al mondo e che vi sono pensieri che riescono ad andare più lontano di quello che si vede e si tocca. So che c’è una forza percepibile che vorrebbe essere eterno e vorrebbe amare l’intera umanità e renderla libera. So che c’è una mano che vorrebbe scrivere parole che restino oltre la fine del corpo. So che le giornate, quando arrivano alla fine e appare la notte, sembrano troppo piccole per essere salutate. So che il tempo di una vita è troppo stretto per tenervi dentro tutti i ricordi.

Gli abiti, le convenzioni, le regole, le incomprensioni, i conflitti segnano la misura della distanza dalla verità. La verità è nell’idea umana di unità universale. La vita nella sua forza e misura più profonda che non si ripete ma che si rinnova. L’essere, umano e non umano, che non sarà più e che lascia una traccia di sé. Il vivente che combatte il destino della fine e che vorrebbe vivere per sempre e ricordare in eterno. L’essere che, di fronte a questo sogno supremo, non accetta l’idea di essere solo un tratto di penna su un foglio di registrazione nascite e di registrazione morti. L’essere che “sente” un pezzo di eterno già dentro di sé e lo chiama superbamente Dio.

domenica 24 luglio 2011

Il G8: agli italiani la Storia non piace.

Dispiace vedere che ancora dopo tanti anni i fatti di Genova siano il pretesto per giochi o accuse politiche.

L’Italia è un paese incapace di esaminare la Storia nella sua obiettività perché il gioco politico è solo quello di creare divisioni, distanze e allentamento della coesione sociale.

Il G8, da tutto quello che è emerso, dalla documentazione riportata dai giornali, dalle tv, dal web, dalle fonti di informazione non ufficiali, dai privati con foto e con telefonini, è stato uno degli eventi più drammatici della storia repubblicana recente.

La distorsione culturale che in Italia imperversa praticamente da sempre per questa divisione politica impedisce all’opinione pubblica di analizzare i fatti senza pregiudizi ideologici. Come diceva Montanelli: "Io non credo nelle ideologie, credo nei principi”.

Ecco, credo allora che dovrebbe essere il riferimento ai principi a guidare il cittadino nel riguardare a tanti anni di distanza quei fatti drammatici. Principi come libertà personale, inviolabilità fisica e psichica, divieto di trattamenti disumani e degradanti che, al di là di ogni valutazione politica dell'origine dei fatti del G8, sono stati costantemente messi in discussione come da tantissimi anni ormai non accadeva.

Il G8 è stato il fallimento della democrazia italiana di quegli anni ed il fallimento, insieme, del processo di democratizzazione della polizia, che veniva sperimentato con tanto impegno ormai dalla riforma degli anni ottanta che ne aveva operato la smilitarizzazione.

Il G8 ha segnato, quindi, una tappa negativa perché ha creato, indelebile, nella memoria un senso di sfiducia della gente verso lo Stato-istituzione e verso le forze dell’ordine, di cui ancora raccogliamo l’eredità.

Il G8 è stato un esempio di violazione dei diritti fondamentali dell’individuo perpetrato dallo Stato nei confronti dei propri stessi cittadini inermi, nel contesto di una serie di ambiguità oggettivamente inspiegabili se non cedendo al vizio amaro del sospetto (libertà d’azione ai black-block, sproporzione dei mezzi adoperati rispetto ai pericoli, disorganizzazione totale delle forze in campo, impiego smisurato di uomini, ricorso a truppe d’assalto).

Eppure, ancora, dopo tanti anni in cui i processi (seppur ancora in corso) hanno iniziato a far emergere responsabilità sul piano giuridico, nonostante la grande massa di documenti di varia natura disponibile per accrescere il livello di informazione; tuttavia, nonostante tutto, l’atto di abiura formale - o semplicemente un atto banale di richiesta di perdono - rispetto a quegli eventi da parte di chi era al vertice organizzativo e politico non c’è ancora stato.

E le persone che politicamente hanno sostenuto le forze organizzative di quel vertice con il proprio appoggio, con il proprio voto o con il proprio consenso personale hanno ancora imbarazzo e difficoltà a pronunciare le parole della resa ed ammettere che si è trattato di uno scandalo senza confini.

Tutto questo, a mio avviso trova una ragione. La stessa ragione per la quale ancora oggi a sinistra è difficile condannare apertamente gli ex-terroristi anche soltanto sul piano morale, alla ricerca sempre di ambigue giustificazioni.

Agli italiani la Storia non piace perché la Storia impone responsabilità senza appello.

Preferiscono la politica perché la politica concede sempre una via di fuga.

martedì 31 maggio 2011

“L’albero della vita” di Terrence Malick. Non un film, una messa.

Leggo da più parti le opinioni di esperti del settore, sento le impressioni della gente, ascolto silenziosamente i commenti di persone vicine anche molto preparate e sensibili.

Eppure continuo a stupirmi che molti ritengano il film di Malick, “L’albero della vita”, un film da non consigliare neppure al peggior nemico, un’esperienza altamente negativa. Io invece continuo a pensare, fin dalla prima impressione in sala, ed ancora adesso, di aver avuto il privilegio di trovarmi in questo periodo storico per poter assistere ad un’esperienza artistica di così alto livello. Per me “L’albero della vita” è una capolavoro di livello assoluto.

Lo considero addirittura il film dei film, una sintesi di tutto quello che c’è stato prima, Malick a parte.

Dicono in tanti che il film riprenda in una sorta di percorso ciclico i precedenti film di Malick, in particolare “La rabbia giovane”, ma anche “Nuovo Mondo”, ma io non ho visto – ancora – nessuno dei due.

Rivedo anche io, senza troppo sforzo, riferimenti immediati al meraviglioso “2001” di Kubrick e penso che proprio da quel film sia necessario partire per capire appieno il film di Malick.

Il film di Malick è il film dei film – secondo me – perché riesce con coraggio ed efficacia ad affrontare il tema dei temi: l’esistenza, intesa come piccolo segmento di vita, di respiro, di presenza nello spazio senza fine dell’universo e dell’eternità. Un tema incredibile ed enorme di fronte al quale il rischio della banalità e dell’ovvietà è veramente dietro l’angolo. Ma Malick a questo mira e questo riesce a rendere con piena onestà.

Da questa prospettiva vanno lette ed apprezzate le scene dei dinosauri, le riprese meravigliose della natura, dei vulcani, degli oceani in movimento, dei pianeti e dei satelliti e persino l’incantevole danza delle meduse. La medusa come parte anch’essa dell’esistente, come i protozoi, come i microorganismi.

Per me tutto questo è una pura estasi.

Il film di Malick, come ho letto, è una specie di messa. Ed io sono d’accordo, in pieno. La solennità sta però non nel rito che al film sembra accompagnarsi. La solennità sta nell’oggetto del film: l’aspirazione alla comprensione di questa eternità che spiega il senso dell’esserci, del continuare ad essere presente nel segmento di universo che al momento presente ogni essere umano e non umano possiede.

La religiosità, dunque, non è un’egemonia del rito, della Chiesa, dell’istituzione. La religiosità è il sentimento che, anche - e direi – soprattutto attraverso l’arte trova espressione in una forma, in una rappresentazione visibile. La religiosità è nell’urgenza di conoscere, approfondire, celebrare in ogni modo il fatto di essere parte dell’esistente e dell’infinità del Tempo.

Il film di Malick, allora, è una celebrazione di questa religiosità, intesa non in senso cattolico, musulmano, ebraico ma in senso pienamente laico, aperto, accessibile a chiunque. I riferimenti alle sacre scritture (la figura di Giobbe), la scena nella Chiesa, una costante presenza divina nei discorsi della madre sono, infatti, patrimonio dell’uomo, non solo del credente; un patrimonio di tutti gli uomini.

La materia del film resta sempre l’uomo ed il suo percorso tormentato verso la verità; un percorso che il credente – evidentemente – farà in una direzione ed il non credente in un’altra. E, tuttavia, un percorso identico: il percorso verso la consapevolezza dell’esistere come essere capace di scelte, di valutazioni, di decisioni, di lotte, di direzioni e del non essere solo un corpo movente buttato nel mondo

Il film ha una struttura ciclica. Si parte dall’inizio della vita, si torna dove tutto ha avuto inizio, con la riconciliazione finale del personaggio con il proprio passato.

Il protagonista vive il suo presente (nella scissione fra l’io che ricorda e l’io che è contenuto di quel ricordo ) in un contesto di smarrimento, di paura, di nonsenso perché è vittima di una società corrotta e lontana dalla natura, dalla bellezza, dalla verità. Il suo percorso interiore nel ricordo ha l’aspetto di un’ascesi, simbolicamente racchiusa nel viaggio in ascensore su e giù nel grattacielo dove lavora.

E nel ricordo la luce ha un ruolo fondamentale: la scena finale sarà quella più nitida perché è lì che giungerà la verità.

Ritorna, allora, con la mente a quel segmento di vita che ha avuto il privilegio di possedere, nel mezzo dell’eternità, fra dinosauri che lo hanno preceduto, meduse che vivono la sua esistenza di parte del Tempo e l’eternità che seguirà poi il corso della sua vita, dopo la sua fine.

Il ricordo è allora rivolto alla propria storia, come è naturale che sia, alle proprie origini.

La figura del padre, americano medio che insegue il sogno del riscatto sociale come obiettivo esistenziale (riferimenti letterari a Faulkner e Steinbeck) - un sogno effimero che si conferma poi nella tragedia della perdita del lavoro e nel trasferimento in altra città (un evento che segna la fine di un’epoca per la famiglia e la fine dell’infanzia per il protagonista) - e che non sa vivere l’amore in maniera naturale ma solo filtrato attraverso schemi sociali preordinati (dirà alla fine “Sono stato un uomo profondamente stolto, ho passato la vita a fare di tutto per meritare l’amore”..).

La madre pura, angelica, ingenua che pone l’amore dei figli al centro di tutto e che però è debole dinanzi al marito.

La figura del fratello che simboleggia i buoni che nel mondo sono destinati a perire, a soffocare, a dare la vita (la lotta del Bene e del Male non è dunque un fatto retorico ma forse la cosa più concreta che esista).

Ed ancora la sua figura stessa di ragazzo ribelle (ritorna “La rabbia giovane”…) che rifiuta i modelli per trovare la propria via, che si smarrisce e prova vergogna nella scoperta del sesso (il furto della vestaglia da notte ed il suo abbandono nel fiume) e prova le esperienza della scoperta del dolore altrui (il ragazzino sfregiato vittima di un incendio), della violenza come condizione quasi naturale di relazione nel mondo degli uomini (il sadismo incontrollabile verso il fratellino più piccolo, verso il soggetto più debole) ma violenza comunque appresa e trasmessa dal padre stesso che, in fondo, della società corrotta è la prima vittima (le scene in cui è costretto vanamente ad imparare a fare a pugni).

Vi è quindi lentamente un percorso di allontanamento dalla natura, dall’età felice, dall’epoca primordiale di simbiosi, dalla verità e di avvicinamento verso la società degli uomini e delle sue leggi che culmina poi (Malick si concentra ovviamente solo sulla fase dell’infanzia ma lascia intendere molte altre cose..) nella maturità amara e triste del protagonista.

Nel mezzo di questo percorso interviene la morte del fratello, che avviene improvvisa e tragica all’età di diciannove anni; lasciando nello sfondo la possibilità concreta che sia avvenuta in guerra (ricostruendo il periodo storico è possibile che, per esempio, si nasconda un riferimento al Vietnam).

La guerra, quindi, come fatto orribile, non raccontato, nascosto, che è la sublimazione della società degli uomini e che miete vittime innocenti. La guerra che cambia profondamente le vite degli uomini (qui, riferimenti ad un altro film capolavoro di Malick, “La sottile linea rossa”; dove la guerra è vista proprio come un prodotto della società degli uomini che interviene sulla natura e sull’essenza interiore di tutti gli esseri viventi).

In tutto questo quadro la natura sembra nella vita del ragazzo essere nascosta dal paesaggio artificiale degli uomini (il quartiere residenziale dell’infanzia, la bella casa dove il protagonista adulto vive, il grattacielo dove lavora) ma più forte, nonostante ciò, di ogni cosa e resta sempre attorno a lui, nella forza rassicurante e nella sua violenza.

La natura è sempre presente nel film, in ogni scena: la presenza del vento che muove le foglie (che simbolicamente evidenzia la debolezza e delle cose esistenti rispetto alla natura stessa), la presenza dell’acqua che uccide (il bambino che annega nel lago) o che dà la vita (la scena della nascita) o che accoglie le paure (il protagonista abbandona la veste rubata nel fiume) o che riconcilia con sé stessi (le onde del mare, placide e tranquille nella scena finale) e così via.

Si è detto che è un film senza trama. Non è argomento veramente decisivo e, tuttavia, la trama esiste. Il film è anche e soprattutto la storia di un uomo che cerca di ricostruire nel ricordo il senso della propria vita, che cerca di ritrovare la propria identità dopo averla smarrita proprio dentro la società degli uomini; un mondo popolato di inganni, tranelli, egoismi, ostilità.

E’ la storia di un uomo che cerca la propria fede, intesa come verità, come senso profondo dell’esistere, dell’essere, in contrapposizione con la violenza distruttrice della tentazione verso il nulla, verso il non essere.

Il protagonista infelice, solo, perduto nel suo mondo presente potrebbe decidere di procurarsi la morte, di scegliere la propria fine. Il film finirebbe lì, è chiaro.

Ma Malick propone una alternativa alla scelta nichilista del suicidio: la ricerca della verità come condizione necessaria del vivere; la lotta verso la verità come senso stesso dell’esistere.

Ed allora è nell’infanzia che la costruzione dell’identità può trovare il suo primo fondamento da cui ogni cosa successiva si sviluppa in modo naturale, inevitabile, coerente.

Torno a quello che ero - sembra dire il protagonista -, ricordo cosa ero per capire cosa sono veramente.

E poi il finale. Una delle scene più belle della storia del cinema.

La riconciliazione – ancora una volta nella natura – con la propria vita, con la propria storia nella presenza di tutto quello che quella vita ha composto. I compagni di viaggio, i fratelli, il padre, la madre e tutto il resto.

Il protagonista scende, dopo questo viaggio interiore, al piano terra con una consapevolezza nuova, ricordandosi, forse, che i problemi che pensiamo affliggano ogni giorno l’uomo e che portano molti a dubitare della convenienza o del vantaggio nel proseguire a vivere sono nulli, se rapportati all’eternità del tempo e dell’universo e, dunque, al privilegio – irripetibile ed unico – di essere vivi e di segnare con la nostra azione una traccia indelebile – come i graffiti sulle caverne (quando ci penso mi emoziono per la genialità di questa cosa …) – sul registro del mondo.

Alla fine il sole si spegne. Una scena che io interpreto (ma forse dovrei rivedere il film) come la fine della vita, come due occhi che lentamente cedono e si chiudono; il sole che si spegnerà un giorno per ciascuno, nessuno escluso.

Eppure quel sole che si spegne non può suonare, dopo aver visto il film di Malick, come un pensiero di tristezza ma solo come un cerchio che ad un certo punto si può chiudere con serenità.

Malick sembra in questo punto rispondere al replicante di “Blade runner”: tutti quei momenti non si perderanno come lacrime nel tempo perché – come dice la figura della madre – bisogna amare e sognare e stupirsi perché senza amore la vita ti sembrerà passare come un lampo.

Ecco, finalmente, il messaggio finale che fa di questo un film epocale.

L’amore chiude il cerchio, è la linfa che nutre l’albero della vita: se vivi amando fino in profondità, amando le tue azioni, il tuo lavoro, la tua arte e, possibilmente, anche i tuoi simili ed il mondo di cui fai parte, il giorno in cui il sole dovrà necessariamente spegnersi non avrai solo il rimpianto del replicante che vorrebbe avere più tempo per apprezzare ancora la vita.

La morte sarà solo l’epilogo naturale di una vita vissuta come un privilegio, un’avventura meravigliosa di un essere che ha capito di essere la porzione di un universo in movimento e non una monade solitaria condannata a trovare espedienti per tirare avanti per qualche anno.

Questo è l’albero della vita raffigurato da Terrence Malick.

Conosci le tue origini, la tua storia - sembra dire Malick - per conoscere te stesso. Sei un albero che dall’amore di altri proviene, nel legame con la terra, con la natura, con il mondo e solo amore i frutti dei tuoi rami possono produrre per dare senso a quello che - in un tempo molto piccolo rispetto all’eternità della storia della vita- sei stato.

E’ un’immagine stupenda, un pensiero enorme.

E’ fin troppo chiaro che un messaggio così alto non può essere contenuto in un contenitore così piccolo quale è un film né essere analizzato in veste di spettatore dentro un cinema.

E’ un progetto fin troppo ambizioso e, forse, Malick ha peccato del peccato dell’ambizione nel realizzare questo film. Ma sarà stato il suo albero della vita ad ispirarlo; e quindi lo possiamo certamente perdonare.

Il film di Malick non merita solo proiezioni nei cinema dove rischia di non essere compreso e di essere maltrattato. Non è un film come gli altri e, quindi, merita dibattiti, studi, libri, proiezioni nelle scuole e nelle università.

Non è un film, è una messa universale, per tutti gli uomini del mondo. Una messa in cui si canta non il rito della Chiese ma quello della vita di tutti gli esseri viventi, di quelli che ci sono stati e di quelli che ci saranno dopo.

Un film che è un pezzo pregiato di questa vita. Breve o lunga che sia, comunque incantevol

sabato 2 aprile 2011

Bambini.

I bambini sono dei piccoli adulti. Spesso il mondo degli adulti dimentica questo elemento fondamentale: i bambini sono uomini e donne già formati. Non evoluti pienamente sul piano fisico eppure già formati, sul piano delle capacità emotive. I bambini sono contenitori di sentimenti, emozioni, desideri, frustrazioni, delusioni. Per la parte dei sentimenti, sono già alla pari con il mondo degli adulti.

Ma il mondo degli adulti è lontanissimo dal mondo dei bambini perché assume la prospettiva fallace secondo cui diventare adulti significhi diventare “non-bambini” e, all’opposto, essere bambini significhi essere “non-adulti”. Niente di più sbagliato.

Credo invece che nella storia di ognuno di noi il ricordo della nostra infanzia ci possa suggerire come al contrario i tratti fondamentali del nostro essere individuale, le nostre curiosità, le nostre forme più radicali di interesse verso il mondo esterno abbiano tutte un’origine antica, pluridecennale.

E questo perché la fase più importante della nostra vita è proprio l’infanzia. Noi siamo quelli che eravamo nell’infanzia perché quella è la fase in cui l’essere umano – in un modo o nell’altro – raccoglie dal mondo esterno una molteplicità di stimoli ed input che lo segneranno in modo radicale. Quella fase è la fase della formazione e dello sviluppo delle capacità celebrali, dei centri di raccolta di informazioni della nostra testa, delle capacità di reazione agli impulsi esterni. Quella è la fase in cui la massa confusa e meravigliosa del corpo umano nel suo stadio iniziale entra lentamente, timidamente a contatto con il mondo e con la vita sociale, con l’ambiente esterno e con la natura, con l’aria, l’acqua ed il mondo animale.

Ed allora pensare questo dovrebbe farci riflettere in primo luogo sull’idea confusa che noi abbiamo dei bambini considerandoli essere “inferiori” in quanto non giunti ancora al nostro stesso stadio di sviluppo fisico e psichico. La costruzione dell’identità e della personalità è chiaramente un percorso lungo che si compone in modo determinante della componente dell’esperienza e del fattore tempo. Ciò non comporta però che il contenuto emotivo profondo che già si presenta in un bambino che muove i primi passi ed emette i primi versi sia, solo per questo, non meritevole di eguale considerazione sul piano del rispetto della personalità o del carattere del bambino.

La seconda considerazione che nasce è che se l’habitat esterno è determinante a formare il tessuto storico fondamentale del bambino sul piano della sua capacità di assimilare gli stimoli e gli input esterni, gli adulti che si trovano ad interagire con bambini in modo costante hanno su di sé una responsabilità enorme sul piano proprio della selezione continua di impulsi positivi per lo sviluppo del bambino-persona.

Sarebbe bello pensare che il bambino non è solo un figlio, un nipote o il figlio di un proprio amico, quanto un essere in fase di formazione che sta iniziando questa meravigliosa esperienza di vita e che anche grazie al contributo - occasionale, frammentario, piccolo - di chiunque può avere una possibilità in più per diventare una persona con maggiore interesse, maggiore sensibilità e maggiore profondità di vedute verso il mondo.

Non esistono buoni e cattivi dalla nascita come alcuni studi vogliono far credere; non sono uno scienziato ma sono piuttosto convinto che l’ambiente naturale sia la componente fondamentale nella vita di un essere umano. Impegnarsi per creare attorno ad una vita che si sviluppa un ambiente non solo protetto e sicuro ma anche improntato costantemente al gioco, alla curiosità, alla scoperta del mondo in un rapporto non di gerarchia e di competizione/scontro tra adulto e piccolo bensì di correlazione-empatia tra “guida” e “recettore” può essere un modo utile per far crescere un bambino felice, oggi, ed un adulto più consapevole e rispettoso degli altri, domani.

Imparo ogni giorno che i bambini ci osservano in tutti i nostri comportamenti e non fanno altro che aspettare; aspettare i nostri gesti, i nostri stimoli, i nostri giochi.

Quando ero piccolo non facevo altro che aspettare anche io le parole degli adulti e spesso trovavo invece nei comportamenti degli adulti una leggerezza ed un distacco che nasceva forse dalla povertà di tempo a disposizione da dedicare al gioco ed anche dalla stanchezza che il lavoro negli adulti comporta.

E’ naturale che non abbiamo la stessa predisposizione di un bambino di due anni sul piano del tempo a disposizione o dell’interesse al gioco o allo stimolo verso la scoperta.

Però, forse, quel tentativo di correlazione tra “guida” e “recettore”, anziché un tradizionale atteggiamento gerarchico – autoritario, potrebbe aiutarci a ricordare che anche noi siamo bambini (nel senso di continuità storica sul piano emotivo - individuale) e che anche loro, dunque, (i bambini) sul piano delle emozioni e dei sentimenti sono adulti quanto noi.

I bambini sono una grande opportunità ed al contempo una grande forma di responsabilità: per creare un mondo di adulti migliori domani e per rendere quello di oggi più popolato da adulti-bambini.

martedì 15 marzo 2011

Galli, galline e porcospini. Il corpo delle donne e la zoologia nell’era di Silvio.

Galli , galline e porcospini. Il corpo delle donne e la zooologia nell’era di Silvio.

Il Paese in cui viviamo è un luogo profondamente maschilista.

Non so come si possa condurre una obiettiva analisi storica sul tema delle vittorie del femminismo (aborto, contraccezione ormonale, divorzio e riforma del diritto di famiglia in genere) però forse si può cercare di costruire una fotografia della donna, pubblica o privata, nell’era del berlusconesimo.

La penetrazione della cultura mediatica da “Drive in” e “Uomini e donne” ha decodificato un nuovo modo di essere donna nel mondo, nel mondo del potere, e, in fondo, anche nella famiglia e nelle relazioni individuali in Italia.

Si è passati da un periodo storico di sottomissione della donna ad un periodo di lotte per l’emancipazione ad un periodo di involuzione radicale della figura della donna. La donna vale oggi, nella cultura italiana dominante, quanto vale il suo corpo.

Siamo alla fine dell’Impero, sembra ormai chiaro che stavolta Caligola metterà non più il cavallo ma tutte le amiche ed amichette in posti di potere in cambio di oniriche retribuzioni erotiche.

Il Paese non è più un Paese di uomini e donne: è un Paese di zoccoli e zoccole. Siamo nell’era della sublimazione della prostituzione fisica ed intellettuale.

E’ retorico, scontato osservare come oggi la reificazione della bellezza femminile ha trasformato la donna ed il suo corpo in una invincibile moneta di scambio, più che negli anni passati.

La donna torna ad essere un soggetto inutile, superfluo laddove non offra garanzie di soddisfazione erotico-sessuale di alto livello.

La donna intellettuale, capace, preparata, colta non serve a nessuno perché l’immagine pubblica vincente è il gallismo, la forza del prestigio del puttaniere, la potenza del talamo come pallottoliere di conquiste, il fascino come esibizione quantitativa di corpi posseduti.

La donna, nell’immagine pubblica del potere, ha, quindi, perso la propria battaglia. La donna intelligente, acuta, capace di far parte in posizione di parità di qualsiasi arena dialettica è scomparsa. Il modello di persona capace al femminile, infatti, resta necessariamente un modello anti-estetico ed anti-erotico che trova in Rosy Bindi il suo interprete più autorevole (non a caso, vittima della definizione silviesca “più bella che brava”).

La presenza, tra le illustri esponenti del gentil sesso sugli scranni dell’agorà italiana o in posti di comando dentro ai partiti, di veneri sensuali ed ormai educate a dovere che si trasformano da veline e letterine a promotrici di battaglie di civiltà e di lotta politica di alto livello fa quanto meno sorridere.

La gnoccocrazia è ormai in atto e si trova nel momento più alto del sviluppo. Però non posso nascondere la mia tristezza, senza alcun tono moralista puritano ma solo pensando alle migliaia di ragazze, belle o non belle, che non si piegano al ricatto di mercantizzare la propria immagine e la propria dignità e si impegnano, come tutti, nel proprio lavoro o nello studio, cercando di realizzare piccole idee o piccoli sogni.

E tutto questo, queste eroiche donne invincibili, lo fanno soltanto per una ragione: trovarsi nell’arena pubblica del vivere civile duellando nel rapporto con il maschil sesso nella conservazione di un fondamentale piano di dignità che è canticchiato con toni austeri all’3 della Costituzione. Un obiettivo per il quale le loro nonne e forse alcune delle loro mamme si sono battute per far capire che la donna ha un proprio ruolo definito nel mondo pubblico e privato, che va al di là della procreazione o della mercificazione di un corpo che dia piacere e che non potrà mai essere sostituito dalla voce o dall’azione maschile.

La gnoccocrazia ha poi avuto un ulteriore effetto, parimente grave catastrofico: distruggere l’idea di bellezza femminile. La bellezza del corpo della donna non è più un’immagine artistica, vera, naturale, prorompente in tutta la propria verità. La bellezza non più la sede della dolcezza, non è più l’immagine di un sogno o di una meravigliosa idea visionaria. La bellezza non più il costrutto tangibile di un innamoramento o di un pensiero esaltante.

La bellezza della donna in quanto moneta di scambio ed oggetto di prostituzione diventa violenza, arma di forza, strumento di attacco, sede di aggressività verso il raggiungimento di un risultato in senso aziendale Il corpo deve fare profitto altrimenti se ne perde il senso ontologico. Il corpo allora viene orientato al suo fine naturale della società dei consumi: fare soldi e, come tale, viene esibito senza limiti, senza misura, senza anche alcun senso; non per esaltare l’armonia o al grazia quanto per conquistare potere fisico e materiale. La bellezza è andata perduta, l’anima della donna si è mimetizzata tra culetti saltellanti e tette al vento. Tette e non più seni, ma solo tette. Culi e non più donne, ma solo culi.

Ma l’era della gnoccocrazia, in fondo, non riguarda solo la donna, anzi. A parti invertite, è solo un’espressione parziale di un costume morale e di un’idea filosofica della vita che non ha neppure risparmiato alcuni giovani uomini che hanno ripreso il mito nerissimo del gallo italico, oggi precipitato in capelli allisciati con mille forme, in lampade abbronzanti ed in muscoli che servono a compensare la mancanza totale di parole.

La gnoccocrazia impera perché subiamo una cultura dominante che guarda alla donna solo come “femmina da piacere” in quanto al potere abbiamo uomini egualmente gallici, come Silvio Berlusconi che rendono pubblicamente sdoganabile e accettabile nel dibattito pubblico il teorema assurdo dell’harem e che invocano l’insanità mentale della propria moglie che lamenta in pubblico le devianze sessuali di un marito rincorrente ragazzine non ancora diciottenni.

Normalizzato, dunque, la cultura da “delirium tremens” del maschio sessuofilo, il palcoscenico pubblico non può che diventare egemonia esclusiva delle bambole gonfiabili dell’erotomane di potere. L’icona femminile vincente è allora quella della bella senza cervello o delle bella con il cervello a cui, però, ad un certo punto è stato offerta la lezione fideista secondo la quale esiste una cosa rispetto alla quale la potenza del carro trainato dal bove diventa l’acme dell’impotenza umana.

L’onestà intellettuale vuole, tuttavia, che si ammetta che la colpa non è solo di un singolo uomo di nome Silvio, il quale, nonostante la superominica autostima derivante dai suoi plurimi super poteri e dai suoi invocati ed abusati strumenti mediatici, non sarebbe comunque da solo in grado di generare un simile misfatto antropologico.

In fondo, se impera questa cultura superficiale ed idiota e se al mondo intero l’italiano medio-tradizionale appare ossessionato dall’eros, ciò avrà anche altrove le proprie ragioni sostanziali.

La mancanza, infatti, di un minimo sforzo nei maschi italiani di intravedere anche in una bella ragazza una ragazza pensante e di pari intelligenza, di pari dignità intellettuale si traduce nel costante ed inconsapevole contributo alla lotta silviesca per l’estinzione pubblico-mediatica della donna brutta o della (ancora peggio) eroica bella ed intelligente.

La dimensione mesozoica in cui ci troviamo su questo aspetto in Italia ha origine, dunque, anche in questi scimmieschi e retrogradi atteggiamenti culturali del maschio medio che, nella maggioranza dei casi, non ha saputo ancora sviluppare un approccio paritario con la donna; decidendo allora che soltanto un rimedio vi è per scongiurare l’avanzata tremenda delle donne intellettuali: la sottomissione dell’immagine pubblica della donna entro il suo ruolo di produttrice di eros e piacere di esclusiva fruizione maschile.

L’offesa alla donna è, dunque, già insita nell’apprezzare una gnocca in quanto tale e nel non avere la curiosità, l’interesse, l’intelligenza di capire se ha anche qualcosa da dire, magari qualcosa di originale o persino qualcosa di intelligente.

Anziché invocare, dunque, moniti di morettina memoria (“Donna, dì qualcosa anche non di sinistra”), l’uomo medio italiano assapora il piacere di una società gnoccocratica perché, in fondo, l’illusione di essere un Rocco Siffredi o un Silvio Berlusconi è, in concreto, (“diciamolo” direbbe lui), più appetibile di essere un uomo normale che trova piacere nello scambio con una donna che, oltre alla (tanta, poca o nessuna) bellezza fisica, abbia idee, emozioni, pensieri, esperienze da donare in una relazione paritaria di piacere e di benessere reciproco.

La gnoccocrazia prende più voti, indubbiamente, del modello “Love story” ed il dramma di oggi è che molte ragazze, anche ragazze comuni, si sono già adattate a questo habitat naturale di piena sodomia culturale.

Serve davvero un grande e storico stacco di orgoglio da parte delle donne ma anche una profonda riflessione da parte di questi piccoli maschi italiani, che si sono fatti sottomettere – peggio dei loro nonni - al fascismo sessuale del gallo a tutti i costi senza nemmeno essersene accorti.

Basterebbe capire che non esistono solo galli e galline e che la fattoria è bella proprio quando il panorama faunesco è più vario e numeroso del solito.

Mai visti i porcospini che fanno l’amore? Sono veramente divertenti.

domenica 27 febbraio 2011

da "Natura" di Ralph Waldo Emerson

“La natura non è fissa ma fluida. Lo spirito la altera, la modella, la crea. L’immobilità o l’insensibilità della natura è assenza di spirito; per il puro spirito la natura è fluida, è volatile, è obbediente. Ogni spirito si costruisce una casa, oltre la casa, un mondo e, oltre il suo mondo, un cielo. Sappi, dunque, che il mondo esiste per te. Per te il fenomeno è perfetto. Ciò che siamo, solo quello siamo in grado di vedere. Tutto ciò che Adamo ha posseduto, tutto ciò che Cesare ha potuto, tu possiedi e puoi fare. Adamo chiamava la sua casa cielo e terra, Cesare chiamava Roma la sua casa, tu, forse, chiamerai casa una bottega da calzolaio, un centinaio d’acri di terreno o una soffitta per studenti. Eppure linea dopo linea, punto dopo punto, il tuo dominio è grande quanto il loro, anche senza nomi ricercati. Costruisci dunque il tuo mondo. Non appena conformerai la tua vita alla pura idea presente nella tua mente, essa si disvelerà in tutta la sua grandezza. Un’equivalente rivoluzione delle cose accompagnerà il flusso dello spirito. Altrettanto velocemente spariranno le apparenze spiacevoli: porci, ragni, serpenti, pestilenze, manicomi, prigioni, nemici sono temporanei e non si vedranno più. Lo squallore e il lerciume della natura verranno asciugati dal sole e il vento li disperderà. Come quando viene l’estate del sud, i banchi di neve si sciolgono e la faccia della terra inverdisce al suo cospetto, così lo spirito che avanza creerà i propri ornamenti lungo il cammino e porterà con sé la bellezza che visita e i canti che lo incantano; disegnerà bei volti, cuori ardenti, saggi discorsi e azioni eroiche al suo passaggio fino a che il male sparirà. Nel regno dell’uomo sulla natura, un regno che non si instaura con l’osservazione – un dominio che va al di là del suo stesso sogno di Dio -, in quel regno l’uomo entrerà con la stessa meraviglia di un cieco che riacquisti gradatamente una vista perfetta.”

venerdì 25 febbraio 2011

da "Il giorno del giudizio" di Salvatore Satta

"Riprendo, dopo molti mesi, questo racconto che forse non avrei dovuto mai cominciare. Invecchio rapidamente e sento che mi preparo una triste fine, poiché non ho voluto accettare la prima condizione di una buona morte, che è l’oblio. Forse non erano Don Sebastiano, Donna Vincenza, Gonaria, Pedduzza, Giggia, Baliodda, Dirripezza, tutti gli altri che mi hanno scongiurato di liberarli dalla loro vita; sono io che li ho evocati per liberarmi dalla mia senza misurare il rischio al quale mi esponevo, di rendermi eterno. Oggi, poi, di là dai vetri di questa stanza remota dove io mi sono rifugiato, nevica: una neve leggera che si posa sulle vie e sugli alberi come il tempo sopra di noi. Fra breve tutto sarà uguale. Nel cimitero di Nuoro non si distinguerà il vecchio dal nuovo: “essi” avranno un’effimera pace sotto il manto bianco. Sono stato una volta piccolo anch’io, e il ricordo mi assale di quando seguivo il turbinare dei fiocchi col naso schiacciato contro la finestra. C’erano tutti allora, nella stanza ravvivata dal caminetto, ed eravamo felici poiché non ci conoscevamo. Per conoscersi bisogna svolgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti risusciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale. E’ quello che ho fatto io in questi anni, che vorrei non aver fatto e continuerò a fare perché ormai non si tratta dell’altrui destino ma del mio."

da "Hanno tutti ragione" di Paolo Sorrentino

“Ma se la parola dice figo, la mente dice figa. Quella maschile intendo. A volte pure quella femminile, beninteso. Avete sentito che ultimamente uno degli interventi di chirurgia estetica più richiesti dalle donne un pochino agè è la ricostruzione interna vaginale? Attenzione, non la ricostruzione della verginità, quella non importa più a nessuno, ma la ricostruzione elasticizzata dei tessuti che si ammollano. Una cosa complessa, costosa e dolorosa. Eppure nulla le ferma, a queste amazzoni dell’estetica decadente. Testarde e risolute come tombini. Come vedete, anche il femminile oscilla sul concetto di figa. Oscilla, ma non si allontana. Assomigliano a barattoli di pummarola scaduta, ma possiedono genitali luccicanti degni di stimati pittori morbosi. A me mi fa impressione. Ma io sono sorpassato da me stesso, figuriamoci dall’umanità. E tutti lì a tormentarsi su queste quattro lettere che toglie loro il respiro: figa, figa, figa, figa, figa. Non dormono la notte, l’appetito se ne va, si bombardano di schifezze da tutte le parti per avere la cosiddetta erezione (che brutta parola, erezione!) per introdurre, introdurre, introdurre. Questo l’obiettivo, lo scopo, la ragione di vita. Cosa c’è attorno? Niente. Non sentite odore di morte? La morte non è la scomparsa del desiderio, quella alla mia età si fa irreversibile e fisiologica. Che cazzo ci vuoi fare? Macché! La morte sta nella semplificazione del desiderio. Così come l’altra morte sta nella semplificazione del linguaggio. D’altronde, il desiderio è sempre stato perennemente appeso ad un’articolazione spettacolare e variopinta del linguaggio. Vanno a braccetto, come le commarelle. Ma non è stato sempre così. Sessantasei anni fa, mia moglie si è voltata e mi ha guardato come non mi aveva mai guardato. Mi ha guardato come il sentiero che s’illumina d’incanto, mi ha guardato come il bambino divertito dagli schizzi d’acqua. Così mi ha guardato ed è stata la rivoluzione di me stesso. Non sto dicendo che mi sono innamorato. Sto dicendo che mi sono eccitato l’anima per una torsione del collo. Vero Carla? Te lo ricordi, Carla? Eravamo ragazzi, Carla. Tutta l’incredulità del mondo ci cadeva addosso senza pudore. E quelle vampate nella scoperta della tenerezza, Carla, ma non valevano più della vita stessa? Io penso di sì, Carla. Annuiscimi ancora una volta, Carla. Lo hai fatto tutta la vita, non me lo negare adesso. Adesso che trascorro le giornate a salutare il mondo perché ogni giornata si preannuncia come l’ultima. Annuiscimi ancora. Abbiamo sudato le nostre ascelle con lacrime di commossa partecipazione mentre ci baciavamo a Capri. Dentro i labirinti dell’estate perenne. E un attimo dopo progettavamo la grandezza della famiglia. Progettavamo la responsabilità, come antidoto a tutti i mali esterni che pure ci sono stati. La responsabilità, l’unico rimedio scientifico contro l’horror vacui. La partecipazione emotiva a tutte le sfumature uno dell’altro. Una morbosità indispensabile, Carla. Sentire le proprie spalle accarezzate dalla mano libera, Carla. Ma dove stavamo? Sospesi e galleggianti nell’istante. Se solo un Dio avesse potuto cristallizzare il nostro sentire. Farci stalattitici umane per tutto il tempo. Non avremmo trascorso i successivi sessant’anni ad acchiappare disperatamente l’istante andato e che non è tornato mai più, perché corrotto dal nostro sapere, dal nostro aver provato, Carla. Abbiamo vagato in coppia, come i barboni all’angolo della strada, alla ricerca non del Tavernello, ma dell’istante e degli istanti amabili. Ma come è stato bello, Carla, il tempo in cui l’ingenuità era una risorsa e l’ignoranza un concentrato di saperi. E i fiori dell’estate che opprimevano i nostri cuori, anche questo ci dicevamo, addensati dentro una retorica possibile e dannunziana, perché esclusiva e condivisa dentro i nostri occhi tristi e felici, l’unica retorica possibile, Carla. Vivere insieme, Carla, come noi abbiamo scelto, ierofanici, ossidionali, ineffabili, ha voluto significare anche cogliere il senso del ridicolo di tutti e due, da soli e insieme, e ammirare, con forza e perseveranza straordinarie, quel senso del ridicolo che scappa via dalle gonne e dai pantaloni, come la vipera che vedemmo a Maratea sotto brutti fuochi d’artificio. Estenuati dalle nostre stesse, infinite parole, fluttuati nei rigurgiti rumorosi della noia e delle noie reciproche, eppure estaticamente assuefatti a quell’idea di unicità, di insostituibilità che non ci ha reso unici, dal momento che nessuno è unico, ma insostituibili sì. Ecco, questo siamo stati, insostituibili. L’amore è insostituibilità.”

Reality show

La morte di Pietro Taricone non mi lascia disinteressato.
Stamattina mi sono svegliato pensando, oltre alle solite cose, a come sarebbe finita con Dell’Utri e se Taricone, nella notte, ce l’avesse fatta.
Quando ho acceso la televisione davanti alla colazione, ripetendo un gesto ripetitivo di ogni giornata, ho visto la schermata che diceva che era morto e qualcosa di triste mi è restato dentro.
Non conoscevo Taricone, come non conosco tutte le persone, giovani e non, che muoiono per incidenti banali come questo ogni giorno.
Il mio pensiero è stato un altro. In qualche modo la faccia di questa ragazzo era negli anni entrata nella mia vita.
La televisione fa diventare le altre persone membri della tua vita, crea una relazione virtuale con i volti che accompagnano le nostre serate o i nostri risvegli televisivi.
E allora ho pensato a quando ho visto per la prima volta la faccia di Taricone. Facevo l’Erasmus, ero in Scozia e in rete impazzavano i blog e le notizie sul primo reality della storia italiana, il Grande Fratello. Era il tempo in cui io guardavo questo fenomeno come una sorta di delirio collettivo e la gente invece si riuniva in gruppi nelle case la sera per assistere alla mutazione genetica della televisione italiana. Da sede naturale di esposizione di visibilità già note a costruzione di personaggi provenienti dal pieno anonimato dei ragazzi della porta accanto.
Non mi interessa discutere delle qualità umane di Taricone, né posso farlo. Lo lascio ad altri.
Penso soltanto al fatto che davvero la nostra vita è forse cambiata inesorabilmente.
Viviamo in costante contatto con un mondo che non esiste. La televisione, internet, facebook hanno potenziato in modo incredibile la nostra capacità di immaginare, di creare realtà e relazioni virtuali. Si è creata una tavola di risorse potenzialmente infinita.
Riusciamo a commuoverci per la morte di persone che non abbiamo mai incontrato e che sentiamo tremendamente ed involontariamente vicine a noi ed alla nostra storia.
Mi chiedo se la nostra vita, allora, così tanto snodata ed allungata sulle ore trascorse su social network, chat, reality si sia davvero arricchita.
Per un verso, penso che il progresso delle tecnologie ci abbia dato una nuova opportunità: abbiamo unito le persone, anche lontane fisicamente tra loro, nelle possibilità più democratiche di accesso alle informazioni, di condivisione e confronto di sensazioni o punti di vista.
Per un altro, però, vedo che, tutto sommato, la presenza così penetrante, quasi “affettiva”, della tv nella nostra vita ed il nostro essere continuamente “in rete” e collegati con il mondo ci costringa, in realtà, ad essere più soli di quanto invece non potremmo essere. Abbiamo sviluppato una grande capacità nell’essere voyeur di ogni evento, di ogni foto altrui, di ogni immagine; senza capire, forse, quale sia davvero il livello della nostra reale “partecipazione” a ciò che è esterno a noi.
Che relazioni, insomma, sono quelle che creiamo e/o alimentiamo sulla rete o tramite in genere le tecnologie?
Forse è un percorso ormai inarrestabile, al punto che non riesco più nemmeno a ricordare la mia vita senza internet e mi chiedo, a volte, come colmassi all’epoca il mio bisogno di “condivisione” che oggi in parte affido a queste nuove forme di comunicazione.
Non voglio pensare che internet e le tecnologie siano droghe di cui siamo dipendenti. Posso benissimo decidere quando spegnere il mio computer ma il punto è: perché non provare ad avere lo stesso livello di condivisione anche senza la rete? Perché le persone non riescono a compenetrarsi con la stessa facilità?
Secondo me la risposta è che i social network, in particolare, sono la conseguenza di una società, la nostra, in cui nel privato non si riesce più ad essere profondamente liberi. Le nostre emozioni per qualche legge di diritto divino devono restare nascoste, represse o soltanto affioranti lungo temi di confronto più convenzionali. La nostra società crea comportamenti uniformi per tutti, per ogni categoria ed il fatto che tutti, o quasi, sono su facebook è la conferma del fatto che hanno bisogno di condividere all’interno un mondo “diverso”, non reale ma virtuale. La realtà non basta perché la nostra vita nei complessi organizzati non soddisfa fino in fondo il nostro bisogno di umanità.
Perché allora non trarre utilità da questo fenomeno? Tutto ciò è il segnale di un istinto di sopravvivenza della nostra umanità. Facebook è la prova di quanto sia sbagliato il sistema di relazioni delle società occidentali: non improntato a vera libertà di manifestazione dei sentimenti, basato sulle regole dell’apparenza e della appartenenza alla classe sociale, in cui le forme di comunicazione non sono quasi mai sincere ma sempre filtrate da troppi schermi. Schermi che su facebook per magia cadono: le persone diventano amici in quindici minuti, si creano coppie e storie d’amore, si confessano problemi a semi-sconosciuti, si scoprono lontananze di vedute profonde da persone considerate veri amici.
Il bisogno di umanità supera le convenzioni sociali e le apparenze e le tecnologie possono essere un aiuto per capire questo.
Però, ciò compreso, dovremmo anche saper spegnere il computer e guardare il mondo con più sincerità.

Sogni di Bunker Hill

Le mie difficoltà, le difficoltà in cui a volte precipito nascono dai miei sogni.
La realtà in cui mi trovo a vivere impone continui compromessi, un adattamento costante.
Vorrei trovare la forza di essere me stesso. Costruisco difese attorno a me, barriere per controllare razionalmente il mondo, evitare di essere preda delle cose, tenere distanza dalla vita.
Ho costruito un muro tra me e il mondo. A un certo punto avevo troppa paura di soffrire e allora ho cominciato un pò per gioco, un pò per sfida, un pò alla fine per abitudine a vivere così. A stare lontano, a tenere a bada le cose.
Non so come sono entrato in questo gioco ma adesso è diventato qualcosa di forte.
La verità è che anche io, come alcuni miei amici molto sensibili, guardo troppo la vita. La guardo passare come un treno che sbuffa lento nella pianura e mi piace sfiorare quei piccoli lembi di fumo che si lascia dietro. Mi piace guardare i passeggeri che stanno nelle loro cabine.
Una volta però volevo di più, volevo riempire questa pianura di gente, pensavo che sarebbe stato semplice. Bastava solo dire quello che pensavo e tutti sarebbero stati con me. Con il tempo mi sono accorto che crescendo devi imparare ad indossare gli abiti giusti, gli abiti della festa, quelli dell'incontro formale, quelli della cordialità, quelli della simpatia. Ma nessuno di questi abiti è mai stato per me della misura giusta.
Eppure le volte che ho gettato i miei abiti via mi sono mostrato nella mia nudità e la gente non sempre mi ha voluto, forse non piace la sincerità, forse la sincerità sembra qualcosa di indiscreto.
Allora, il mio cuore di bambino si è stancato di mostrarsi nudo ed ha iniziato a fingere. A fingere di essere simpatico, cordiale, a modo, pensando che nella mia pianura avrei continuato a restare da solo o al più con pochi amici.
Oggi sono sempre più convinto che le nostre storie, le storie di ognuno che si incrociano nelle emozioni, attimi, momenti che sembrano poter durare a lungo e ci fanno sentire vivi, in realtà, sono per lo più la proiezione dei nostri abiti e di come gli altri vedono quegli abiti. Troviamo uno sguardo che si mostra amico, incontriamo una donna che dice di apprezzarci, intratteniamo una brillante conversazione su temi elevati, eppure in qualche modo ci sentiamo lontani da tutto questo. Nonostante abbiamo riempito la nostra serata di parole, di sguardi, gesti, forse anche qualche bacio, appena posiamo le nostre vesti sulla sedia, non restiamo che noi, privi di niente altro che della nostra mancanza.
E le relazioni tra persone funzionano per lo più così; i rapporti vanno avanti inconsapevoli di quale sia realmente il loro senso oppure consapevoli ma nella amara finzione del loro valore.
Tanta gente sopravvive a questo, vive nell'immediatezza del momento, colleziona attimi dietro attimi pensando così di riempire un'esistenza di tracce di vissuto. Eppure, pensando a queste cose io sento solo disagio, mi sento lontano dalla felicità, dalla verità.
E la mia difficoltà nasce dal fatto che io sogno. Sogno persone che possano vedermi nel profondo, sogno parole che aprano il cuore della gente, oltre le loro vesti, sogno che la gente scenda dal proprio treno rombante e indaffarato e si fermi, tranquilla, sulla mia pianura.
Molti rapporti, in definitiva, mi stancano, aumentano la mia solitudine, imponendomi di restare nella mia pianura.
Ogni tanto cerco di lanciare parole che possano aprire lembi profondi nella pelle della gente ma molti hanno paura di parlare. Molti preferiscono intavolare discorsi sul lavoro, lo studio, i progeti di vita anzichè condividere i loro dubbi sulla felicità che non riusciamo a trovare e sui sogni che davvero ci portiamo dentro costantemente, quando a notte fonda siamo soli in una stanza e non riusciamo a dormire.
Non so se sia colpa della società globale se i nostri sogni siano destinati a restare confinati nella solitudine, non credo che in altri tempi i destini dell'uomo fossero diversi. Sicuramente però la nostra società, quella in cui viviamo, non vuole un uomo sognante e la gente non è portata a parlare dei propri sogni con la stessa serietà di altri argomenti. La nostra società è produttiva, circolante ricchezza, fagocitante risorse verso obiettivi non discutibili: la carriera, il successo economico, il potere, la rispettabilità secondo status sociali. In questi parametri i sogni sono un elemento destabilizzante perchè aprono lo spazio dell'anarchia individuale. Se le persone invece di ansimare dietro modelli di confronto predeterminati solo per avere consenso, appoggio, aprissero di più il proprio cuore mettendo sul tavolo di ogni discorso i propri sogni avremmo una società meno rigida, forse più caotica ma piena di una grande energia positiva che avvolgerebbe tutti.
Invece le persone per lo più purtroppo rinunciano alla fantasia, si omologano, si conformano a più livelli: nei discorsi, nelle relazioni, nelle manifestazioni del proprio pensiero. Liberare all'esterno i propri sogni potrebbe portare ad una umanizzazione di ciascuno di questi profili.
Il sogno anche nella dimensione di confronto, di relazione più banale ci fa sentire per quello che siamo, esseri votati all'empatia, e rende prezioso il singolo momento di vita che sta scorrendo.

Discorso sulla società meccanica

Viviamo in un contesto profondamente deviato, deviato in tutto e per tutto rispetto alla prospettiva umana. La società – possiamo chiamarla con qualsiasi etichetta – capitalista, occidentale, industrializzata etc. etc., in ogni caso, questa società è lontana anni luce dall’uomo. La parola uomo non esiste, è pronunciata in modo menzognero, ingannevole, truffaldino.

I rapporti umani, di qualsiasi grado e livello, seguono regole precise, non sono né liberi né anarchici. La socialità è piegata alle regole della produzione: produzione di piaceri, soddisfazione di bisogni, eliminazione di svantaggi, creazione di potere. Potere economico, potere fisico, potere sociale. Il principio ispiratore è quello del rapporto classe dominante-classe dominata; e questo nella mia visione del mondo si riproduce a tutti i livelli. Dalla nazione all’industria agli schemi sociali alle relazioni tra individui. Ognuno percepisce l’altro come strumento potenzialmente idoneo a creare ricchezza e soddisfare bisogni individuali ed impulsi egoistici. Nella maggior parte dei casi – nella vita che si sviluppa nella parte di mondo in cui ci troviamo a risiedere – c’è poca verità, c’è poca umanità.

Siamo ragazzi e ragazze cresciuti poco consapevolmente con l’educazione televisiva, con l’esibizione dei corpi come merce di scambio, con la creazione della figura del mito e del successo. Abbiamo dentro di noi l’idea del “meglio” e del “peggio”, del “conveniente” e dello “sconveniente”, dell’”opportuno” o dell’”inopportuno”. Tutto è misurato in termini economici.

Anche il corpo vive questa eclissi: o viene nascosto, frustrato, represso dalle morali religiose conservatrici oppure vive mercificato come strumento di conquista di consenso, come valuta per il successo, per l’accettazione. Il corpo nudo non è più simbolo di bellezza, anticamera di verità: è solo un oggetto, niente di più, al pari del denaro e dei beni materiali che questa società impone di acquistare.

Viviamo nella società dei bisogni indotti: l’offerta crea la domanda e non al contrario. La maggior parte delle cose viene prodotta perché deve essere acquistata e così il produttore crea il bisogno nel consumatore.

Siamo pieni di cose inutili che non ci servono. Siamo consumatori e non essere umani; votanti e non partecipanti, spettatori e non veri attori. Siamo lontani anni luce dalla verità e dalla libertà.

Vale, dunque, solo un principio cardine: “chi si ferma è perduto”. In definitiva, chi è fuori dal coro, chi rallenta gli ingranaggi, chi non mostra di trovare piacere ed agio nella società del consumo non esiste perché esiste solo ciò che viene percepito come esistente secondo le regole del gioco.

In questo sistema di relazioni ed in questo ordine di conflitti l’omologazione è la legge universale indistruttibile; si tratta di una legge che non conosce regole, sottile, invisibile, in grado di avvolgere anche le menti più raffinate. Essa gioca sulla debolezza, sul bisogno di socialità, sul senso di affermazione dell’io, sulla vanità. In questo modo, anche l’individuo intelligente cede alla tentazione oscura dell’omologazione perché stare fuori realmente dal coro significa letteralmente morire. Omologazione significa accettare di mutare atteggiamento, opinione, comportamento solo per compiacere gli altri, solo per avere approvazione, potere, per essere accettati, per non restare soli e sconfitti nel conflitto degli ordini sociali.

Attraverso l’omologazione passa e si accetta tutto: anche le menti sensibili accettano il gioco della meccanizzazione dei sentimenti, la pratica delle mode e delle voci di massa. Tutto ciò per la paura del vuoto, del nulla.

La mia visione del mondo, allora, è il rifiuto totale di questo ordine giuridico e morale. Io rifiuto l’omologazione per sopravvivere alla società meccanica, per non essere schiacciato dalla moda dell’estinzione dell’individuo libero, diverso, in grado non solo di pensare ma anche di sentire.

Come dice Chaplin nel Grande Dittatore “pensiamo troppo e sentiamo poco”.

E allora anche io mi nascondo, mi inabisso. Ma anche questa è una reazione deprecabile perché cedo alla regola borghese che tutto vieta al di fuori di ciò che è borghese.

Però rifuggo dall’idea del suicidio: nella mia visione del mondo la vita non si ripete, è un’opportunità. Nasciamo, viviamo, moriamo ed è proprio per questo che ciò che conta è il “come” vivere.

Ci posso essere quattro strade allora:

1) Vivere nascosti, nell’ombra, fingere di essere borghesi pur avendo animo anarchico e nascondere, celare ogni attimo della nostra vita libera. Da questo punto di vista, la ragione di ciò potrebbe anche essere il disprezzo ed il rifiuto di questo mondo che non merita la nostra limpidezza e la nostra sincerità.

2) Agire liberamente, in solitudine, rifiutando il mondo con le sue regole insulse e vivendo liberamente del proprio sentimento di vita, senza desiderare la condivisione con altri esseri incapaci di capirci. In tutto questo, però, nel nostro rifiuto del mondo essere liberi ci consente di uscire allo scoperto, alla luce del sole, denudandoci di tutti i limiti borghesi.

3) Vivere una vita alla ricerca delle piccole condivisioni, dei piccoli spazi. Parlare sinceramente con tutti ma aprirsi solo a pochi eletti che davvero sono simili a noi, anime disperate alla ricerca della verità. Questo è realmente possibile ed io forse cerco di praticare con tenacia questa strada.

4) Aprirsi al mondo come rifiuto del mondo stesso. Sovvertire il sistema facendo gruppi numerosi che possano ascoltare, diffondere una parola di verità a tutti. Andare per il mondo cercando di prendersi il mondo stesso, sentendolo parte essenziale di sé, da sottrarre all’egemonia degli uomini malvagi. Questa è la strada più difficile e non so se la praticherò mai realmente nella mia vita perché è resa ardua proprio dalle sirene dell’omologazione a cui anche gli uomini intelligenti non si sottraggono.

Io, comunque, non credo nella scelta di sparire e non lasciare traccia di sé. Mi sembra una rinuncia, l’accettazione del fallimento; è chiaro, infatti, che se non lasci traccia di te a nessuno importerà qualcosa, nessuna se ne farà un problema. Non voglio cancellare le mie impronte però sicuramente mi sento da sempre esiliato, escluso, fuori posto, decontestualizzato. Eppure temo che questa sia la mia condizione esistenziale perché, probabilmente, molto più semplicemente, questo è il risultato della mia modalità di approccio alla realtà. Io sono questo, cioè sono una persona che, comunque vada, guarda gli altri con diffidenza, con un po’ di timore, che vuole stare due passi lontano dal mondo perché sento troppo l’urgenza di capire le cose prima di viverle. Al contempo non riesco a rinunciare alla vita; sento un legame millenario che mi lega ad essa e non avrò mai la forza necessaria per togliermela, per privarmene realmente.

Posso solo aspirare a conservare dentro di me le facce e le parole che stanno dietro ai miei silenzi e conservarle per le pochissime (una, due o tre) persone che hanno la pazienza, la curiosità, la sensibilità per ascoltarmi. Per il resto, mi auguro di poter vivere a lungo per aprirmi di più al mondo.

Vorrei sentirmi di più parte dell’esistente; non degli uomini, con le loro stupide mode, le loro irruenti mutazioni di costume, le loro sciocche dipendenze dalle contingenze e dai tempi. Vorrei sentirmi membro della vita collettiva, del mondo animale, del pianeta con i suoi problemi e vorrei che anche una sola mia parola, un mio piccolissimo gesto fosse in grado di fare la Storia nel senso più profondo del termine. Comincio a pensare senza più dubbi che le parole ed i piccoli gesti cambino il corso delle cose, che chi salva anche una sola vita (umana o animale) salvi il mondo intero e che ci possano essere pochi, pochissimi giusti che nel silenzio ogni giorno salvano il mondo dalla catastrofe.

Ecco, questa mi sembra una possibile prospettiva alternativa al mito del suicidio come rifiuto di un mondo ignobile ed inferiore a noi od alla scelta della cancellazione delle proprie tracce, come forma eventuale di mediazione con il fatto di restare in vita.

Mi sento solo, questo è chiaro. E’ da una vita che mi sento solo, solissimo, spesso quasi perduto. Però ho avuto la fortuna di condividere il mio percorso con persone abili a farmi dimenticare per un attimo la mia profonda, congenita solitudine. Ed a queste persone dirò sempre, ogni attimo della mia vita, anche nei futuri ricordi, grazie per il bene che mi danno.

Ma devo affrontare da solo il mio cammino, anche contro me stesso.

Io continuo il viaggio, sapendo che sarà dura ma voglio pensare a tutte le parti di mondo che non ho ancora visto, alle persone che esistono oltre quelle che vedo abitualmente, alle cose che non so, ai libri che ancora devo leggere, a tutte le parti di mondo che, in definitiva, non fanno ancora parte della mia solitudine.

Spero di riuscire nell’impresa.