venerdì 29 giugno 2012

La letteratura, l'arte e la realtà sociale.


Non so per chi si scriva realmente. Se si scriva per sé stessi o per gli altri.
Non sono mai stato capace di dirlo, di chiarire questo punto.
Io dico che scrivo per me stesso ma forse per essere ascoltato da qualcuno che non conosco.
Se fossi capito realmente dalle persone che conosco probabilmente non scriverei una sola parola.
Ed invece è il bisogno e l’ansia di trovare persone che ascoltino che spingono alla scrittura.
Forse la scrittura è un appello, un proclama primitivo all’adunata.
La scrittura è un lancio di pietre nel mucchio con un senso di sfiducia nel genere umano.
Pietre che nessuno raccoglierà e che molti schiveranno, pietre che si ammasseranno per terra senza forma e senza senso. Eppure pietre di cui chi scrive ha bisogno di disfarsi perché troppo ingombranti.
O forse pietre che non appartengono a chi scrive e sono a lui capitate solo per sorte o per maledizione.
Il genere umano non sa parlare mai nel modo giusto. Quando si parla le parole che riusciamo ad esprimere solo al massimo il venti per cento di quelle che vorremmo usare e le emozioni che vorremmo condividere non sono neppure la più piccola parte di quelle che abitano dentro di noi.
Non è allora forse solo il senso di solitudine profonda che spinge a scrivere ma anche il desiderio di una liberazione da una condanna. Non credo che lo scrittore sia altruista per definizione: è anzi un perfetto egoista, un crudele carnefice che costringe chi ha la sfortuna di leggerlo a subire le stesse pene e le stesse espiazioni che egli sta vivendo.
La letteratura è sempre un viaggio verso il buio, non è mai un salto verso il bene, verso la felicità. La letteratura è il salto nel precipizio.
Io adoro scrittori come Dostoevskj e Simenon perché rappresentano il buio, quello che non si dice. E non hanno pietà o compassione e neppure condanna per i loro personaggi. I loro personaggi sono quelli che tutto il genere umano, in fondo, è: né buono né cattivo, né carne né pesce. Solo un insieme enorme di persone che vivono cercando di trovare un equilibrio tra la luce della socialità con le sue chiare regole umane e il buio interiore che si illumina della libertà massima del trasgressore, del ladro, dell’assassino.
Capire la letteratura è molto difficile se mai si è provato, almeno una volta, ad essere scrittori. Essere scrittori significa affrontare quel buio con le proprie mani, buttarsi a testa in giù nel laido paesaggio sottostante tutte le nostre convenzioni e le nostre convinzioni morali.
La letteratura sovverte perché descrive il mondo di sotto o l’altro lato della luna. Un mondo che fa, comunque, sempre parte delle nostre giornate e che vive silenzioso durante le lunghe ore di lavoro o di comune vivere sociale.
Creare un personaggio è, dunque, consentire una piena vita a questo mondo perché significa rappresentare il vero nella sua più profonda essenza: descrivere la mancanza assoluta sia del bene sia del male. Lo scrittore deve, infatti, essere equidistante, mantenersi imparziale come un giudice. Come il giudice non pratica mai le leggi della morale, si disinteressa dei profili etici di una vicenda e si limita ad applicare la “legge”, allo stesso modo lo scrittore veramente onesto non può parteggiare, non può creare un mondo di buoni e di cattivi. Lo scrittore profondamente onesto deve solo applicare la legge della scrittura che impone soltanto di dire fedelmente la verità e di rappresentare realmente come sono andate le cose nella storia che racconta.
Lo scrittore è come il giudice: non può essere un moralista. Può solo ed accertare e raccontare ed applicare una legge. 
Il contributo dello scrittore ad una costruzione morale del mondo non passa mai attraverso l’adesione ad un progetto morale preesistente e l’applicazione delle regole etiche che il mondo già esistente per sé seleziona e sceglie di praticare.
Lo scrittore porta avanti un’opera ed un intervento di completamento e ridefinizione delle regole morali perché destruttura le regole morali secondo i codici del mondo letterario che sono rappresentativi di verità fuori dalle regole morali stesse della società umana. La letteratura, infatti, è veramente e profondamente libera proprio quando riesce a rifiutare pienamente e con coraggio le regole morali già praticate nel vivere umano e le sovverte o le re-individua o persino le abiura del tutto.
Il rapporto letteratura - realtà sociale non deve essere, in definitiva, di mera rappresentazione della realtà sociale. La realtà letteraria, ed artistica in generale, è una realtà enormemente più ampia di quella sociale che in essa, in altre parole, è contenuta.
Non si tratta, dunque, di parlare di una fuga dalla realtà: la realtà, al contrario, è contenuta essa stessa nell’arte e nella letteratura la quale non può essere sottomessa alle regole di quel mondo sociale bensì è soggetto che liberamente quelle regole può dominare, plasmare, cambiare.
La libertà ed il senso dello scrivere, della letteratura, dell’arte derivano dal fatto che, per fortuna, tutte queste cose non fanno parte della realtà sociale, che è una realtà strutturalmente parziale e della cui parziarietà le regole morali e giudiriche sono sempre, inevitabilmente, espressione.
Il senso, il vantaggio, l’utilità dell’arte, della letteratura, dello scrivere risiedono nel fatto che tutte queste cose sono la realtà stessa in cui è contenuta la più piccola e ridotta realtà sociale.
La realtà umana invece è sempre un fatto più grande, più ampio e complesso della realtà sociale, nella quale noi viviamo proprio nel solco delle regole morali e giuridiche.
Quelle regole non hanno, però, più alcun senso una volta aperti i confini della letteratura e dell’arte.
Si scrive per uscire dalla realtà sociale perché questa realtà non potrà mai essere sufficiente per vivere.     

mercoledì 27 giugno 2012

La fiaba del lupo libero (da "Educazione siberiana", Nicolai Lilin)


… Per farmelo entrare nella zucca mi raccontava spesso una fiaba siberiana, una specie di metafora, il cui senso era proprio la perdita di dignità degli uomini che seguono una via sbagliata, attirati da falsi benefici. Quella fiaba parlava di un branco di lupi che erano messi un po’ male perché non mangiavano da parecchio tempo, insomma attraversavano un brutto periodo. Il vecchio lupo capo branco tranquillizzava tutti, chiedeva ai suoi compagni di avere pazienza e aspettare, tanto prima o poi sarebbero passati branchi di cinghiali o di cervi, e loro avrebbero fatto una caccia ricca e si sarebbero finalmente riempiti la pancia. Un lupo giovane, però, che non aveva nessuna voglia di aspettare, si mise a cercare una soluzione rapida al problema. Decise di uscire dal bosco e di andare a chiedere il cibo agli uomini. Il vecchio lupo provò a fermarlo, disse che se lui fosse andato a prendere il cibo dagli uomini sarebbe cambiato e non sarebbe più stato un lupo. Il giovane lupo non lo prese sul serio, rispose con cattiveria che per riempire lo stomaco non serviva a niente seguire regole precise, l’importante era riempirlo. Detto questo, se ne andò verso il villaggio. Gli uomini lo nutrirono coi loro avanzi, e ogni volta che il giovane lupo si riempiva lo stomaco pensava di tornare nel bosco per unirsi agli altri, però poi lo prendeva il sonno e lui rimandava ogni volta il ritorno, finché non dimenticò completamente la vita di branco, il piacere della caccia, l’emozione di dividere la preda con i compagni.
Cominciò ad andare a caccia con gli uomini, ad aiutare loro anziché i lupi con cui era nato e cresciuto. Un giorno, durante la caccia, un uomo sparò a un vecchio lupo che cadde a terra ferito. Il giovane lupo corse verso di lui per portarlo al suo padrone, e mentre cercava di prenderlo con i denti si accorse che era il vecchio capo branco. Si vergognò, non sapeva cosa dirgli. Fu il vecchio lupo a riempire quel silenzio con le sue ultime parole:
“Ho vissuto la mia vita da lupo degno, ho cacciato molto e ho diviso con i miei fratelli tante prede, così adesso sto morendo felice. Invece tu vivrai la tua vita nella vergogna, da solo, in un mondo a cui non appartieni, perché hai rifiutato la dignità di lupo libero per avere la pancia piena. Sei diventato indegno. Ovunque andrai, tutti ti tratteranno con disprezzo, non appartieni né al mondo dei lupi né a quello degli uomini … Così capirai che la fame viene e passa, ma la dignità una volta persa non torna più”.