venerdì 17 febbraio 2012

Le responsabilità dell'artista

L'artista scrive, parla, pensa, compone in libertà tutto quel che gli pare, tutto quello che sente necessario.

Non devono nemmeno pensarsi limiti all'arte perché ciò sarebbe una contraddizione di sé stessa. L'arte consente, infatti, di superare i limiti: i limiti culturali, sociali, economici, spaziali, temporali. L'arte è, per definizione, illimitata. L'arte è un concetto generale.

Il problema, dunque, non è nella possibilità di pensare l'arte come qualcosa di limitabile o controllabile. Il problema è pensare se l'arte e gli artisti possano avere responsabilità di quel che dicono o fanno.

Già a livello penale, l'idea più in generale di fattispecie di illecito create sulla dimensione della libertà di opinione trova molte difficoltà: pensiamo in Italia al dibattito sulla possibilità di concepire il negazionismo come reato (fattispecie, peraltro, esistente nell'esperienza tedesca e francese) ma pensiamo anche alla libertà di critica o di cronaca o anche a quella di satira nei rapporti con il delitto di diffamazione.

Ma l'arte certamente ha un contenuto intrinseco che va al di là di una mera libertà di espressione o di opinione. L'arte e l’espressione artistica sono un concetto già preliminare all'idea di una libertà di manifestazione del pensiero perché, contenendo un pensiero o un'idea costruiscono e fanno vivere l'idea od un pensiero come un corpo separato, vivente, esistente che, in qualche modo, vive e si trova presente nel mondo senza più appartenere al proprio autore.

Sebbene esista una disciplina che tutela il diritto di autore questa disciplina sembra rivolta a tutelare primariamente l'autore ed i suoi diritti di rivendica patrimoniale sull'opera non a tutelare, se non indirettamente, l'opera come cosa esistente in maniera autonoma.

Tutto questo può essere probabilmente smentito da esperti del settore - che probabilmente ne capiscono più di me - e, tuttavia, dato ciò per assunto, mi viene allora un dubbio: possiamo considerare gli artisti responsabili delle conseguenze positive o negative che le loro opere producono?

Diceva Guccini che con le canzoni non si fan rivoluzioni però esiste tutta una discografia che ha vissuto e proliferato anche grazie al parallelismo con le lotte del '68 e ci sono gruppi, come i Rage against the machine, che hanno fatto della lotta no-global il proprio simbolo di identità.

Resta un po’ ambigua la posizione di molti artisti su ciò che le canzoni, le opere, i film da loro prodotti sono in grado di produrre e, dunque, sul profilo del merito (in caso di effetti astrattamente positivi) o della responsabilità (in caso di effetti astrattamente negativi).

Certo, possiamo negare il discorso a monte e dire: non c'è un problema di responsabilità degli artisti. L'arte deriva da un diritto fondamentale e, come tale, resta libera rispetto alle sue conseguenze.

Possiamo accettare questo punto di vista e chiudere il discorso.

In questo calderone in cui tutto è salvo in forza di tale diritto può, allora, entrare di tutto.

Questo calderone – in cui si potrebbe aprire la questione infinita e burlesca su ciò che è arte e ciò che non è arte – potrebbe contenere di tutto: artisti impegnati che vogliono stimolare alla lotta politica, artisti disimpegnati che vogliono spingere al puro trastullo ed al divertimento, artisti che incitano alla lotta controllo il terrorismo o all’antisemitismo, artisti che incitano alla camorra ed alle mafie, artisti che non hanno nulla da dire e vendono dischi a palate.

Ma possiamo anche riflettere pensando al fatto che, almeno nel nostro sistema costituzionale, non esiste un diritto inaffievolibile e, come tale sotratto alla bilanciabilità con altre esigenze ed altre posizioni giuridiche.

Il problema, a parer mio, non può essere posto però solo a livello giuridico perché esso è anche un problema etico ed impone di riflettere anche sulla fonte e sull'origine dell'azione artistica; tema troppo complesso e troppo lungo da sintetizzare.

E, tuttavia, se in termini banali diciamo che l'arte è, in primo luogo, come molti sostengono, una forma di comunicazione o un tentativo "diverso" di comunicare si apre la questione necessaria del destinatario. Chi è il destinatario dell'azione artistica? L'artista potrebbe dire: "A me la questione non interessa perché la platea d'ascolto è indifferenziata e, dunque, non è il punto stabilire a chi parla l'artista bensì cosa dice".

Ma la questione, anche in tal caso, non cambia. Perché "cosa dice" ed "a chi lo dice" sono entrambe questioni che si collocano sul piano della destinazione dell'azione artistica: l'azione artistica si rivolge a ciò che esiste ed a ciò che esisterà. Cioè si rivolge agli esseri umani (e, in generale, al mondo) esistenti oggi e si rivolge agli esseri umani di domani o dei prossimi secoli.

L'artista, in altre parole, a mio modo di vedere, non è mai solo e proprio perché pensare l'arte come condizione di solitudine è una contraddizione al concetto stesso di azione artistica che è, in sé, mirata a condividere e comunicare, in particolare creando ed inventando nuove ed infinite modalità di comunicazione e di produzione di contatti.

Se allora accettiamo l'idea che questo "contatto" o questo "bisogno di contatto" è un motore propulsivo del senso dell'arte dobbiamo pensare alla possibilità che esiste un problema di responsabilità dell'artista ed immaginare che, in qualche modo, l'artista - nella stessa misura in cui opera per il bene della verità in forza della quale aspira ad ottenere la libertà espressiva che merita - assume anche su di sé il dovere di considerare l'altra sponda della comunicazione, cioè il mondo e gli esseri umani.

La responsabilità dell'artista è, dunque, nella scelta circa ciò che, attraverso la propria opera, "merita" di esistere nel mondo e ciò che - dal suo punto di vista - non lo merita.

Un pò come Mastro Geppetto che dà vita al burattino di legno l'artista ha la possibilità di decidere ciò che - tramite le sue mani e le sue idee - avrà vita propria nel mondo e camminerà in futuro con le sue gambe, distaccandosi da lui.

Ed allora mi viene in mente l'unica scena decente del film di Sorrentino "This must be the place" quando il protagonista si reca, come ogni giorno, sulla tomba di un fan che si è ucciso ed attribuisce - anche in forza delle accuse dei genitori di quello - a sè stesso ed ai propri testi un pò "decadenti" la responsabilità della sua morte.

Questa storia è certamente un paradosso perché le persone tendenti alla depressione sono milioni nel mondo e sarebbe pericoloso attribuire direttamente alla musica i suicidi di tante persone. Ci sono cause precise alla depressione; addirittura alcuni studi mostrano che perfino lo stress della madre durante la gravidanza può agevolare nel bambino l'attitudine a dipendenze e disturbi depressivi futuri.

Tuttavia, proprio perché il fruitore dell'opera d'arte può essere chiunque - seppure non si possa chiedere all'artista di condizionare la propria azione secondo l'idea di un pubblico immaturo e non pronto all'ascolto (sarebbe paternalista ed anche fascista) - si può però ambire ad un mondo artistico pienamente consapevole dell'importanza degli effetti della propria azione sul mondo circostante che, in definitiva, resta sia l’utente sia il vero oggetto dell’azione artistica.

Ogni piccolo gesto porta potenzialmente una reazione causale enorme.

Se gli artisti avessero chiara l'importanza (molti ce l’hanno, tanti altri non ne se ne curano a torto) che l'arte, in realtà, riveste nella vita della gente, di tutta la gente, avrebbero anche chiara e netta la possibilità con la propria azione di portare - nei limiti del possibile e di punti di vista comunque relativi - qualcosa di "buono" e di "positivo" nella vita della gente.

Ho ascoltato per anni ed adoro gruppi come i Nirvana i cui testi spesso mostrano un rapporto tormentato con l'essere ed il continuare ad essere. E mi hanno anche aiutato a capire molte cose di me stesso però penso oggi, a trent'anni, che Kurt Cobain avesse torto perchè con la sua musica, continuando a vivere, forse avrebbe cambiato qualcosa e forse anche la sua vita sarebbe stata migliore se avesse capito realmente - oltre i suoi problemi - l'importanza della sua musica per il mondo. Avrebbe forse lasciato segni diversi nella storia delle persone che lo ascoltavano. Ed invece con il suo suicido (legato ovviamente ai suoi motivi personali e non sindacabili) è solo passata l'idea che la sua musica sia una musica per depressi che vogliono farla finita con il mondo. E penso che fosse proprio quello che lui voleva, alla fine.

Ma a me tutto questo non piace. Penso che la letteratura, la musica, le arte visive, si trovino sul filo sottile di quelli che possono rendere il mondo un posto migliore, più evoluto e libero dove vivere, e quelli che invece non sono interessati a nulla se non a sé stessi ed ai propri problemi.

Forse una canzone triste può parlare di un problema ed aiutare la gente a capire.

Ma perché moltissime canzoni devono essere solo tristi e parlare di quello che nella vita non funziona? Perché una canzone non può essere bella senza dire che tutto è una merda, che non sappiamo dove andare, che dobbiamo morire presto, che è bello drogarsi, che la famiglia fa schifo e che il dolore è l'unica sensazione che fa sentire l'essere umano vivo?

Perché non possiamo volere dagli artisti messaggi positivi, di lotta, di reazione, di volontà, di attaccamento a tutte le bellezze della vita soprattutto in un mondo che cerca in ogni modo di indebolire fisicamente e mentalmente le persone per renderle vulnerabili, passive e, quindi, dominabili?

Ho sempre creduto che una società fatta di persone con tante dipendenze (alcol, droghe etc.) sia una società che fa molto comodo a chi governa perché annulla la capacità di dissenso e la forza critica ed aumenta la possibilità per le case farmaceutiche e le multinazionali delle sigarette di fare miliardi.

Una società fatta di persone ottimiste e pronte alla critica fa male al potere perché le persone così possono associarsi e combattere anziché deprimersi o suicidarsi.

L’arte è sul filo sottile di chi lotta e di chi spinge a non lottare proprio.

Ci sono artisti – parlo della musica soprattutto – che sentono questo tipo di responsabilità e – ferme le esigenze commerciali che ci sono dietro ogni produzione discografica – provano, in mezzo alle mode ed ai costumi, a lanciare messaggi ed idee con molta onestà. E lo fanno proprio perché sono consapevoli della potenza comunicativa dell’espressione artistica.

L'artista, per me, dovrebbe lanciare – magari con livelli e forme ovviamente diverse - un messaggio di rivolta, di ribellione, di speranza, di libertà, di novità.

Dovrebbe far vedere che l'arte è più forte di tutto, è la cosa più grande ed eterna che esiste e che nessun limite umano naturale (la fine della vita ed il tempo) o artificiale (le banche, le guerre, le nazioni) possono fiaccarla.

Guccini nella stessa canzone in cui diceva che Dio era morto riusciva anche a dire che Dio è risorto e che le generazioni future sarebbero state pronte per cambiare.

Certamente un cantante come Vasco Brondi, nell’attuale scena musicale italiana, ha il grande merito di descrivere in maniera assolutamente commovente la realtà tremenda e precaria in cui viviamo e lo fa in maniera delicata ed innovativa, spiegando che le persone continuano ad amarsi nonostante tutto.

Ma non servirebbe anche qualcuno che dicesse che le cose invece vanno bene lo stesso perchè siamo vivi e viviamo una volta sola e questo, in fondo, è quello che conta veramente?

Che dicesse che comunque la vita è bella proprio perché è unica e che è bello vedere un albero, vedere il mare, vedere le persone che amiamo e conoscere popoli nuovi e scoprire nuovi animali ed innamorarsi e fare l'amore dieci volte al giorno?

Ognuno poi lo direbbe, ovviamente, a modo proprio e secondo le frequenze musicali che predilige.

E fanculo alla crisi ed a quelli che sanno solo parlare della crisi.

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