mercoledì 22 luglio 2009

I piccioni e la scrittura

Gesualdo Bufalino nel suo “Argo il cieco” chiede alla scrittura la fonte di salvezza.
Il suo personaggio è sul punto di togliersi la vita ma inizia a ricordare il proprio passato in Sicilia, dalla lontananza di una stanza d’albergo romana. Nella notte, a poco a poco, lentamente le immagini della giovinezza, attraverso le parole, cominciano a riemergere ai suoi occhi.
Gli amori impossibili, sognati con donne mai capaci di amarlo e capirlo, ma anche il fresco riposante degli ulivi, il mare che riaffiora con il suo sale impregnando con dolcezza la testa di schiuma.
Nella penombra di questa anonima camera d’hotel della capitale si compie il ritorno alla purezza, alla libertà attraverso l’abbandono alla poesia.
Il protagonista - questo umile, timido professore - si muove da solo, con monologhi rivolti unicamente a sé stesso e nei suoi pochi passi leggeri parla agli altri attori della scena come lanciando versi da un profondo inascoltato. La sua solitudine è quasi eguale all’amore inondante che porta nelle ossa.

Non voglio andare oltre nel richiamo a questo bellissimo libro; non so perché ho pensato a questo testo o forse sì. L’animo del professore di Modica è quello di un uomo innamorato eppure prigioniero di un limite insuperabile: in realtà non sa amare. Non sa amare perché davvero ha paura di vivere. Il suo guardare alle donne che gli passano attorno è il simbolo di un’infinita, immobile attesa.
Il professore non sa amare perché ha paura di vivere e lanciarsi nell’acqua tumultuosa della vita e vorrebbe infatti – questo è incipit e motivo conduttore del libro – avere il coraggio di levarsi la vita da sé.

La paura di vivere paralizza. Comunicare con gli altri significa dazione, privazione, perdita, rischio, sconfitta.
Viviamo come i piccioni abbarbicati sui fili dell’alta tensione; stiamo lì seduti con la voglia di guardare il mondo, la strada, conoscere le cose. Eppure non ci muoviamo da quei fili pericolosi che in un solo istante potrebbero con una scarica farci cadere verso il basso.
Vivere sembra vivere con un freno che ci tiene al riparo dai pericoli ma privati della vita stessa. Guardiamo gli altri che incrociamo e non sentiamo nulla, al riparo sul nostro filo pericoloso.
Rimane sempre almeno un metro e mezzo tra noi e la verità, tra noi e quel suolo laggiù dove scorrono gli eventi.
Ci proteggiamo con l’unica risorsa di cui disponiamo: la menzogna. Con essa fingiamo la vita, fingiamo un dialogo, uno stupore, una conversazione sincera. In questo modo ci sentiamo al sicuro, inattaccabili; pensiamo che non ci possa accadere nulla di male. Pensiamo che non è esattamente un granché come situazione ma ci reputiamo decisamente protetti e quindi, tutto sommato, lieti, soddisfatti.
In realtà non siamo felici, lo sappiamo tutti e vogliamo altro. Siamo ancora fermi su quel filo in alto, non ci siamo mossi, abbiamo solo mostrato un sorriso balordo che, in fondo, non esiste. Parliamo agli altri piccioni sul filo, scambiamo il nostro mangime prelibato, addobbiamo devoti il nostro nido sul palo con foglie secche di illustre rarità e nuovi delicati rametti di pino. Ma nonostante ciò restiamo, in fondo alla gola o sulla punta della lingua o ancora sulla linea delle labbra, imbrattati di un sapore malsano e fastidioso, di un che continuo, perenne di … insoddisfatto. Siamo, in realtà, un po’ a digiuno della vita. Piccioni a dieta - si direbbe -, senza però averne ancora consumate di effettive scorpacciate.

E allora si scrive. Si scrive per prendere in giro la vita, per destrutturarla e denudarla, per ridicolizzare quell’assurdo palo dell’alta tensione. Si scrive, si racconta costantemente di quel metro e mezzo circa che separa i piccioni dal suolo, dalla vera vita. Si scrive con l’illusione che serva realmente a qualcosa, che possa davvero levare quell’angoscia da qualcuno che legge e che guarda il professore di Modica e reputa il suo vivere … ridicolo.
Si inventano storie come fossero inverosimili, si dà carne e corpo a personaggi incapaci di vivere per tenere lontano da noi l’incubo.

Una volta vedevo la scrittura - da piccolo - come un rifugio dal mondo; un gioco istintivo di raccontare altri mondi dove non ci fossero persone che conoscevo e che mi piacevano poco. Lentamente però ho visto nella scrittura un’altrove diverso, l’altrove del reale, dove rappresentare in forma teatrale, scenica il vero dramma: l’esistente.
Adesso non penso più alla scrittura come una terra lontana dove andare a riposare; l’istinto mi dice invece che la scrittura serve non a fuggire dalle cose ma a fare luce su di esse. Mi serve a capire l’inconsistenza di alcune idee e di alcuni comportamenti, l’illusione di alcune certezze, l’inutilità di alcuni momenti ma anche la necessità di certe azioni e di certe scelte.
La scrittura diventa allora da strumento di sopravvivenza, da trastullo piacevole per sentirsi più lieti, a mezzo di lotta per la verità, da difesa contro la nostra solitudine ed inconsistenza a strada necessaria per realizzare l’opera del vivere.

Nonostante tutto, però, rimane una prova di resistenza. Scrivo perché ho ancora polmoni allenati ma molto spesso sono preda delle mie paure.
Ho paura di non sapere amare, di non trovare la verità, di lasciarmi tentare anch’io da grigi pregiudizi ed entusiasmi senza colore. Spesso mi lascio travolgere da un odore intrigante pensando che dietro ci sia nascosto l’amore verificando solo dopo, quando il dolore è già arrivato, che mi ero sbagliato e che non vi era alcun fiore oltre lo stelo.
Altre volte mi lascio convincere che la strada facile ed in compagnia mi porterà benessere ed allora la percorro convinto che nel chiasso sul quel sentiero mi troverò bene. E invece dopo rimpiango di non essere rimasto ferreo nel mio proposito iniziale.
Altre volte ancora mi sposo beato e con sorriso ampio sull’altare della leggerezza e protendo ad essa quasi sfiorando una virtù; ma dopo poche lune d’incanto s’illumina improvvisa la risposta. Mi ero ancora, di nuovo, sbagliato: il mio passo non ha avuto senso.

Tutte queste azioni che mi conducono inevitabilmente dolore derivano dalla paura, la paura di perdere qualcosa, di subire un abbandono, una delazione, una bugia, di avere una smentita su un’idea od una risposta indesiderata. E allora, queste paure mi spingono a percorrere la comune e più comoda stradella dell’asfalto anziché condurre sapiente e con orgoglio il mio quattroperquattro per lo sterrato non segnalato.

Eppure il danno non è così grave, a pensarci bene. Cosa è vivere se non il rischio continuo di morire?
A pensarci bene, davvero, la metà delle nostre scelte non derivano da un’idea diretta di libertà e ricerca, da una spinta illuminata di sapienza. La metà di loro - e spesso davvero quelle più significative - provengono invece dalla paura di cadere nel vuoto, di perdere tutto. Invece di porre un’azione poniamo una reazione; al posto di una domanda preferiamo più spesso dare una dissimulata risposta.
Verrebbe allora lo sconcerto ad andare fino in fondo in questa riflessione e forse, allora, i propositi suicidi del timido professore di Modica non apparirebbero talmente incongrui e tanto inverosimili.

Eppure il problema non è nella sostanza ma nel metodo. Possiamo opporre alla paura non il coraggio – non tutti, infatti, ne disponiamo a sufficienza – ma quanto meno la propensione al vero.
Amare qualcuno o qualcosa non è in realtà dolore e non vita. Amare è già vivere l’amore, amare è in sé saper vivere, cercare e saper trovare il vivere. Vivere è cercare il vivere.
La perdita, dunque, fa già parte dell’amore prima che esso accada e come tale non può stupire e preoccupare il rischio.
La vita si misura proprio con la nostra misurazione dell’amore; la si perde invece proprio nell’istante stesso in cui si pensa con animo atterrito che prima o poi l’amore svanirà, che prima o poi qualcuno o qualcosa ci lascerà.
In quell’istante, infatti, prima ancora che le membra fisiche si separino da noi, abbiamo già innalzato al cielo il peana dell’addio a quest’esistenza.
Il nostro rifugio lassù sui fili dell’alta tensione è già morte, è già suicidio, è già non vivere.

La finitezza del nostro esistere non ci pone infinite alternative: o vivere dando luogo con sapienza e grande sete ai nostri impulsi, che essi stessi danno linfa ai nostri piccoli giorni sulla terra; o fare il personaggio Gesualdo, che la scrittura ci ha insegnato ridicolo nel suo penare lamentoso nel ricordo delle amanti.
A quel punto allora il piccione prova ad alzarsi e magari non cade; resta in piedi e saluta gli altri ancora appesi al filo, tutti in attesa della scarica di alta tensione. Chissà poi quando arriva …

1 commento: