venerdì 25 febbraio 2011

Reality show

La morte di Pietro Taricone non mi lascia disinteressato.
Stamattina mi sono svegliato pensando, oltre alle solite cose, a come sarebbe finita con Dell’Utri e se Taricone, nella notte, ce l’avesse fatta.
Quando ho acceso la televisione davanti alla colazione, ripetendo un gesto ripetitivo di ogni giornata, ho visto la schermata che diceva che era morto e qualcosa di triste mi è restato dentro.
Non conoscevo Taricone, come non conosco tutte le persone, giovani e non, che muoiono per incidenti banali come questo ogni giorno.
Il mio pensiero è stato un altro. In qualche modo la faccia di questa ragazzo era negli anni entrata nella mia vita.
La televisione fa diventare le altre persone membri della tua vita, crea una relazione virtuale con i volti che accompagnano le nostre serate o i nostri risvegli televisivi.
E allora ho pensato a quando ho visto per la prima volta la faccia di Taricone. Facevo l’Erasmus, ero in Scozia e in rete impazzavano i blog e le notizie sul primo reality della storia italiana, il Grande Fratello. Era il tempo in cui io guardavo questo fenomeno come una sorta di delirio collettivo e la gente invece si riuniva in gruppi nelle case la sera per assistere alla mutazione genetica della televisione italiana. Da sede naturale di esposizione di visibilità già note a costruzione di personaggi provenienti dal pieno anonimato dei ragazzi della porta accanto.
Non mi interessa discutere delle qualità umane di Taricone, né posso farlo. Lo lascio ad altri.
Penso soltanto al fatto che davvero la nostra vita è forse cambiata inesorabilmente.
Viviamo in costante contatto con un mondo che non esiste. La televisione, internet, facebook hanno potenziato in modo incredibile la nostra capacità di immaginare, di creare realtà e relazioni virtuali. Si è creata una tavola di risorse potenzialmente infinita.
Riusciamo a commuoverci per la morte di persone che non abbiamo mai incontrato e che sentiamo tremendamente ed involontariamente vicine a noi ed alla nostra storia.
Mi chiedo se la nostra vita, allora, così tanto snodata ed allungata sulle ore trascorse su social network, chat, reality si sia davvero arricchita.
Per un verso, penso che il progresso delle tecnologie ci abbia dato una nuova opportunità: abbiamo unito le persone, anche lontane fisicamente tra loro, nelle possibilità più democratiche di accesso alle informazioni, di condivisione e confronto di sensazioni o punti di vista.
Per un altro, però, vedo che, tutto sommato, la presenza così penetrante, quasi “affettiva”, della tv nella nostra vita ed il nostro essere continuamente “in rete” e collegati con il mondo ci costringa, in realtà, ad essere più soli di quanto invece non potremmo essere. Abbiamo sviluppato una grande capacità nell’essere voyeur di ogni evento, di ogni foto altrui, di ogni immagine; senza capire, forse, quale sia davvero il livello della nostra reale “partecipazione” a ciò che è esterno a noi.
Che relazioni, insomma, sono quelle che creiamo e/o alimentiamo sulla rete o tramite in genere le tecnologie?
Forse è un percorso ormai inarrestabile, al punto che non riesco più nemmeno a ricordare la mia vita senza internet e mi chiedo, a volte, come colmassi all’epoca il mio bisogno di “condivisione” che oggi in parte affido a queste nuove forme di comunicazione.
Non voglio pensare che internet e le tecnologie siano droghe di cui siamo dipendenti. Posso benissimo decidere quando spegnere il mio computer ma il punto è: perché non provare ad avere lo stesso livello di condivisione anche senza la rete? Perché le persone non riescono a compenetrarsi con la stessa facilità?
Secondo me la risposta è che i social network, in particolare, sono la conseguenza di una società, la nostra, in cui nel privato non si riesce più ad essere profondamente liberi. Le nostre emozioni per qualche legge di diritto divino devono restare nascoste, represse o soltanto affioranti lungo temi di confronto più convenzionali. La nostra società crea comportamenti uniformi per tutti, per ogni categoria ed il fatto che tutti, o quasi, sono su facebook è la conferma del fatto che hanno bisogno di condividere all’interno un mondo “diverso”, non reale ma virtuale. La realtà non basta perché la nostra vita nei complessi organizzati non soddisfa fino in fondo il nostro bisogno di umanità.
Perché allora non trarre utilità da questo fenomeno? Tutto ciò è il segnale di un istinto di sopravvivenza della nostra umanità. Facebook è la prova di quanto sia sbagliato il sistema di relazioni delle società occidentali: non improntato a vera libertà di manifestazione dei sentimenti, basato sulle regole dell’apparenza e della appartenenza alla classe sociale, in cui le forme di comunicazione non sono quasi mai sincere ma sempre filtrate da troppi schermi. Schermi che su facebook per magia cadono: le persone diventano amici in quindici minuti, si creano coppie e storie d’amore, si confessano problemi a semi-sconosciuti, si scoprono lontananze di vedute profonde da persone considerate veri amici.
Il bisogno di umanità supera le convenzioni sociali e le apparenze e le tecnologie possono essere un aiuto per capire questo.
Però, ciò compreso, dovremmo anche saper spegnere il computer e guardare il mondo con più sincerità.

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