Viviamo in un contesto profondamente deviato, deviato in tutto e per tutto rispetto alla prospettiva umana. La società – possiamo chiamarla con qualsiasi etichetta – capitalista, occidentale, industrializzata etc. etc., in ogni caso, questa società è lontana anni luce dall’uomo. La parola uomo non esiste, è pronunciata in modo menzognero, ingannevole, truffaldino.
I rapporti umani, di qualsiasi grado e livello, seguono regole precise, non sono né liberi né anarchici. La socialità è piegata alle regole della produzione: produzione di piaceri, soddisfazione di bisogni, eliminazione di svantaggi, creazione di potere. Potere economico, potere fisico, potere sociale. Il principio ispiratore è quello del rapporto classe dominante-classe dominata; e questo nella mia visione del mondo si riproduce a tutti i livelli. Dalla nazione all’industria agli schemi sociali alle relazioni tra individui. Ognuno percepisce l’altro come strumento potenzialmente idoneo a creare ricchezza e soddisfare bisogni individuali ed impulsi egoistici. Nella maggior parte dei casi – nella vita che si sviluppa nella parte di mondo in cui ci troviamo a risiedere – c’è poca verità, c’è poca umanità.
Siamo ragazzi e ragazze cresciuti poco consapevolmente con l’educazione televisiva, con l’esibizione dei corpi come merce di scambio, con la creazione della figura del mito e del successo. Abbiamo dentro di noi l’idea del “meglio” e del “peggio”, del “conveniente” e dello “sconveniente”, dell’”opportuno” o dell’”inopportuno”. Tutto è misurato in termini economici.
Anche il corpo vive questa eclissi: o viene nascosto, frustrato, represso dalle morali religiose conservatrici oppure vive mercificato come strumento di conquista di consenso, come valuta per il successo, per l’accettazione. Il corpo nudo non è più simbolo di bellezza, anticamera di verità: è solo un oggetto, niente di più, al pari del denaro e dei beni materiali che questa società impone di acquistare.
Viviamo nella società dei bisogni indotti: l’offerta crea la domanda e non al contrario. La maggior parte delle cose viene prodotta perché deve essere acquistata e così il produttore crea il bisogno nel consumatore.
Siamo pieni di cose inutili che non ci servono. Siamo consumatori e non essere umani; votanti e non partecipanti, spettatori e non veri attori. Siamo lontani anni luce dalla verità e dalla libertà.
Vale, dunque, solo un principio cardine: “chi si ferma è perduto”. In definitiva, chi è fuori dal coro, chi rallenta gli ingranaggi, chi non mostra di trovare piacere ed agio nella società del consumo non esiste perché esiste solo ciò che viene percepito come esistente secondo le regole del gioco.
In questo sistema di relazioni ed in questo ordine di conflitti l’omologazione è la legge universale indistruttibile; si tratta di una legge che non conosce regole, sottile, invisibile, in grado di avvolgere anche le menti più raffinate. Essa gioca sulla debolezza, sul bisogno di socialità, sul senso di affermazione dell’io, sulla vanità. In questo modo, anche l’individuo intelligente cede alla tentazione oscura dell’omologazione perché stare fuori realmente dal coro significa letteralmente morire. Omologazione significa accettare di mutare atteggiamento, opinione, comportamento solo per compiacere gli altri, solo per avere approvazione, potere, per essere accettati, per non restare soli e sconfitti nel conflitto degli ordini sociali.
Attraverso l’omologazione passa e si accetta tutto: anche le menti sensibili accettano il gioco della meccanizzazione dei sentimenti, la pratica delle mode e delle voci di massa. Tutto ciò per la paura del vuoto, del nulla.
La mia visione del mondo, allora, è il rifiuto totale di questo ordine giuridico e morale. Io rifiuto l’omologazione per sopravvivere alla società meccanica, per non essere schiacciato dalla moda dell’estinzione dell’individuo libero, diverso, in grado non solo di pensare ma anche di sentire.
Come dice Chaplin nel Grande Dittatore “pensiamo troppo e sentiamo poco”.
E allora anche io mi nascondo, mi inabisso. Ma anche questa è una reazione deprecabile perché cedo alla regola borghese che tutto vieta al di fuori di ciò che è borghese.
Però rifuggo dall’idea del suicidio: nella mia visione del mondo la vita non si ripete, è un’opportunità. Nasciamo, viviamo, moriamo ed è proprio per questo che ciò che conta è il “come” vivere.
Ci posso essere quattro strade allora:
1) Vivere nascosti, nell’ombra, fingere di essere borghesi pur avendo animo anarchico e nascondere, celare ogni attimo della nostra vita libera. Da questo punto di vista, la ragione di ciò potrebbe anche essere il disprezzo ed il rifiuto di questo mondo che non merita la nostra limpidezza e la nostra sincerità.
2) Agire liberamente, in solitudine, rifiutando il mondo con le sue regole insulse e vivendo liberamente del proprio sentimento di vita, senza desiderare la condivisione con altri esseri incapaci di capirci. In tutto questo, però, nel nostro rifiuto del mondo essere liberi ci consente di uscire allo scoperto, alla luce del sole, denudandoci di tutti i limiti borghesi.
3) Vivere una vita alla ricerca delle piccole condivisioni, dei piccoli spazi. Parlare sinceramente con tutti ma aprirsi solo a pochi eletti che davvero sono simili a noi, anime disperate alla ricerca della verità. Questo è realmente possibile ed io forse cerco di praticare con tenacia questa strada.
4) Aprirsi al mondo come rifiuto del mondo stesso. Sovvertire il sistema facendo gruppi numerosi che possano ascoltare, diffondere una parola di verità a tutti. Andare per il mondo cercando di prendersi il mondo stesso, sentendolo parte essenziale di sé, da sottrarre all’egemonia degli uomini malvagi. Questa è la strada più difficile e non so se la praticherò mai realmente nella mia vita perché è resa ardua proprio dalle sirene dell’omologazione a cui anche gli uomini intelligenti non si sottraggono.
Io, comunque, non credo nella scelta di sparire e non lasciare traccia di sé. Mi sembra una rinuncia, l’accettazione del fallimento; è chiaro, infatti, che se non lasci traccia di te a nessuno importerà qualcosa, nessuna se ne farà un problema. Non voglio cancellare le mie impronte però sicuramente mi sento da sempre esiliato, escluso, fuori posto, decontestualizzato. Eppure temo che questa sia la mia condizione esistenziale perché, probabilmente, molto più semplicemente, questo è il risultato della mia modalità di approccio alla realtà. Io sono questo, cioè sono una persona che, comunque vada, guarda gli altri con diffidenza, con un po’ di timore, che vuole stare due passi lontano dal mondo perché sento troppo l’urgenza di capire le cose prima di viverle. Al contempo non riesco a rinunciare alla vita; sento un legame millenario che mi lega ad essa e non avrò mai la forza necessaria per togliermela, per privarmene realmente.
Posso solo aspirare a conservare dentro di me le facce e le parole che stanno dietro ai miei silenzi e conservarle per le pochissime (una, due o tre) persone che hanno la pazienza, la curiosità, la sensibilità per ascoltarmi. Per il resto, mi auguro di poter vivere a lungo per aprirmi di più al mondo.
Vorrei sentirmi di più parte dell’esistente; non degli uomini, con le loro stupide mode, le loro irruenti mutazioni di costume, le loro sciocche dipendenze dalle contingenze e dai tempi. Vorrei sentirmi membro della vita collettiva, del mondo animale, del pianeta con i suoi problemi e vorrei che anche una sola mia parola, un mio piccolissimo gesto fosse in grado di fare la Storia nel senso più profondo del termine. Comincio a pensare senza più dubbi che le parole ed i piccoli gesti cambino il corso delle cose, che chi salva anche una sola vita (umana o animale) salvi il mondo intero e che ci possano essere pochi, pochissimi giusti che nel silenzio ogni giorno salvano il mondo dalla catastrofe.
Ecco, questa mi sembra una possibile prospettiva alternativa al mito del suicidio come rifiuto di un mondo ignobile ed inferiore a noi od alla scelta della cancellazione delle proprie tracce, come forma eventuale di mediazione con il fatto di restare in vita.
Mi sento solo, questo è chiaro. E’ da una vita che mi sento solo, solissimo, spesso quasi perduto. Però ho avuto la fortuna di condividere il mio percorso con persone abili a farmi dimenticare per un attimo la mia profonda, congenita solitudine. Ed a queste persone dirò sempre, ogni attimo della mia vita, anche nei futuri ricordi, grazie per il bene che mi danno.
Ma devo affrontare da solo il mio cammino, anche contro me stesso.
Io continuo il viaggio, sapendo che sarà dura ma voglio pensare a tutte le parti di mondo che non ho ancora visto, alle persone che esistono oltre quelle che vedo abitualmente, alle cose che non so, ai libri che ancora devo leggere, a tutte le parti di mondo che, in definitiva, non fanno ancora parte della mia solitudine.
Spero di riuscire nell’impresa.
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