venerdì 25 febbraio 2011

da "Hanno tutti ragione" di Paolo Sorrentino

“Ma se la parola dice figo, la mente dice figa. Quella maschile intendo. A volte pure quella femminile, beninteso. Avete sentito che ultimamente uno degli interventi di chirurgia estetica più richiesti dalle donne un pochino agè è la ricostruzione interna vaginale? Attenzione, non la ricostruzione della verginità, quella non importa più a nessuno, ma la ricostruzione elasticizzata dei tessuti che si ammollano. Una cosa complessa, costosa e dolorosa. Eppure nulla le ferma, a queste amazzoni dell’estetica decadente. Testarde e risolute come tombini. Come vedete, anche il femminile oscilla sul concetto di figa. Oscilla, ma non si allontana. Assomigliano a barattoli di pummarola scaduta, ma possiedono genitali luccicanti degni di stimati pittori morbosi. A me mi fa impressione. Ma io sono sorpassato da me stesso, figuriamoci dall’umanità. E tutti lì a tormentarsi su queste quattro lettere che toglie loro il respiro: figa, figa, figa, figa, figa. Non dormono la notte, l’appetito se ne va, si bombardano di schifezze da tutte le parti per avere la cosiddetta erezione (che brutta parola, erezione!) per introdurre, introdurre, introdurre. Questo l’obiettivo, lo scopo, la ragione di vita. Cosa c’è attorno? Niente. Non sentite odore di morte? La morte non è la scomparsa del desiderio, quella alla mia età si fa irreversibile e fisiologica. Che cazzo ci vuoi fare? Macché! La morte sta nella semplificazione del desiderio. Così come l’altra morte sta nella semplificazione del linguaggio. D’altronde, il desiderio è sempre stato perennemente appeso ad un’articolazione spettacolare e variopinta del linguaggio. Vanno a braccetto, come le commarelle. Ma non è stato sempre così. Sessantasei anni fa, mia moglie si è voltata e mi ha guardato come non mi aveva mai guardato. Mi ha guardato come il sentiero che s’illumina d’incanto, mi ha guardato come il bambino divertito dagli schizzi d’acqua. Così mi ha guardato ed è stata la rivoluzione di me stesso. Non sto dicendo che mi sono innamorato. Sto dicendo che mi sono eccitato l’anima per una torsione del collo. Vero Carla? Te lo ricordi, Carla? Eravamo ragazzi, Carla. Tutta l’incredulità del mondo ci cadeva addosso senza pudore. E quelle vampate nella scoperta della tenerezza, Carla, ma non valevano più della vita stessa? Io penso di sì, Carla. Annuiscimi ancora una volta, Carla. Lo hai fatto tutta la vita, non me lo negare adesso. Adesso che trascorro le giornate a salutare il mondo perché ogni giornata si preannuncia come l’ultima. Annuiscimi ancora. Abbiamo sudato le nostre ascelle con lacrime di commossa partecipazione mentre ci baciavamo a Capri. Dentro i labirinti dell’estate perenne. E un attimo dopo progettavamo la grandezza della famiglia. Progettavamo la responsabilità, come antidoto a tutti i mali esterni che pure ci sono stati. La responsabilità, l’unico rimedio scientifico contro l’horror vacui. La partecipazione emotiva a tutte le sfumature uno dell’altro. Una morbosità indispensabile, Carla. Sentire le proprie spalle accarezzate dalla mano libera, Carla. Ma dove stavamo? Sospesi e galleggianti nell’istante. Se solo un Dio avesse potuto cristallizzare il nostro sentire. Farci stalattitici umane per tutto il tempo. Non avremmo trascorso i successivi sessant’anni ad acchiappare disperatamente l’istante andato e che non è tornato mai più, perché corrotto dal nostro sapere, dal nostro aver provato, Carla. Abbiamo vagato in coppia, come i barboni all’angolo della strada, alla ricerca non del Tavernello, ma dell’istante e degli istanti amabili. Ma come è stato bello, Carla, il tempo in cui l’ingenuità era una risorsa e l’ignoranza un concentrato di saperi. E i fiori dell’estate che opprimevano i nostri cuori, anche questo ci dicevamo, addensati dentro una retorica possibile e dannunziana, perché esclusiva e condivisa dentro i nostri occhi tristi e felici, l’unica retorica possibile, Carla. Vivere insieme, Carla, come noi abbiamo scelto, ierofanici, ossidionali, ineffabili, ha voluto significare anche cogliere il senso del ridicolo di tutti e due, da soli e insieme, e ammirare, con forza e perseveranza straordinarie, quel senso del ridicolo che scappa via dalle gonne e dai pantaloni, come la vipera che vedemmo a Maratea sotto brutti fuochi d’artificio. Estenuati dalle nostre stesse, infinite parole, fluttuati nei rigurgiti rumorosi della noia e delle noie reciproche, eppure estaticamente assuefatti a quell’idea di unicità, di insostituibilità che non ci ha reso unici, dal momento che nessuno è unico, ma insostituibili sì. Ecco, questo siamo stati, insostituibili. L’amore è insostituibilità.”

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