Il cambiamento della nostra società ha prodotto cambiamenti nelle persone, oltre che nella politica e nell’economia. L’aspirazione alla sicurezza economica ed alla tranquillità sociale adesso, nelle menti delle persone, è forte come lo è quella alla sicurezza ed alla certezza dei rapporti e dei sentimenti.
Ormai la nostra società è definitivamente uscita dalla generazione del benessere diffuso. Ed il problema della precarietà nasce proprio da quel passato: abbiamo tutti, più o meno, vissuto abituati alla regola della possibilità, della fiducia, della sicurezza verso le cose future.
Adesso quel senso di sicurezza si è tramutato in speranza, aspirazione. I sogni delle persone vanno tutti nella direzione del sogno della stabilità: si sogna di trovare un lavoro, anche precario, anche part-time, anche poco pagato; si sogna, da lì, che il lavoro diventi a tempo indeterminato, che diventi full-time, che diventi meglio remunerato; si sogna la possibilità di pagare l’affitto di pochi metri quadri e, da lì, si sogna l’affitto di una casa di quattro stanze fino al sogno incredibile di un mutuo per l’acquisto di un immobile, vero nido di pace sociale e sicurezza.
In questo trapasso, i sentimenti sono diventati ancora più precari di quanto non siano l’economia e lo stato sociale. I sentimenti hanno, più di ogni altra cosa, subito la crisi.
Il mistero del futuro, l’impossibilità di sapere cosa accadrà fra qualche anno, la sensazione che comunque qualcosa, nel quadro degli eventi della nostra vita, non dipenda dal nostro impegno o dal nostro ottimismo creano inquietudine, precarietà nel nostro modo di considerare la presenza anche di chi ci sta vicino. Viene meno la sensazione che chi abbiamo accanto possa restare per sempre, qualsiasi cosa accada, perché sembra che tutti, chi più o chi meno, siano trascinati dal vento della crisi, da una forza superiore che decide, al posto nostro, delle nostre vite.
E, così, la sensazione che le cose potrebbero non essere per sempre, l’incertezza che quel rapporto già costruito possa davvero poggiare sulle basi solide di un lavoro, di un mutuo, di un futuro sicuro portano a ridimensionare il nostro sguardo verso gli altri, verso i sentimenti.
I sentimenti, i rapporti, diventano precari, diventano incerti, legati alle contingenze, al momento, diventano rapporti part-time o in affitto. Si cerca di amare qualcuno ma sempre con la paura di non sapere cosa accadrà, dove finiremo, cosa faremo, dove andremo a finire tra un po’ di tempo. Si vive con la sensazione che tutto possa cambiare da un momento all’altro, troppo velocemente. E tutta questa precarietà dei sentimenti deriva, in realtà, dalla nostra impreparazione a questo stato di cose: siamo cresciuti in un’era in cui avevamo molte sicurezze economiche e sociali, in cui vedevamo i nostri parenti più grandi arrivare a trent’anni e trovare un lavoro, sposarsi, fare due -tre figli entro i quarant’anni, avere una macchina ed un mutuo prima dei trentacinque. Oggi queste cose sembrano sogni meravigliosi, certamente non alla portata di tutti.
Il mondo è cambiato: eravamo abituati al benessere o almeno ad un discreto livello di sicurezza sociale. Oggi invece viviamo nella stessa precarietà con cui altri popoli, altre persone di altri Paesi prima meno ricchi hanno sempre o spesso convissuto.
Non siamo pronti ed attrezzati a questa precarietà sociale, non ci hanno insegnato come si vive in un Paese in crisi, nessuno ci ha spiegato come si fa. Stiamo solo subendo tutto questo, ci stiamo lentamente adattando.
Ed allora, l’evoluzione della specie porta la nostra razza ad adeguarsi ed a vivere anche i sentimenti ed i rapporti umani come prodotti del precariato: non si fanno progetti, si cerca di vivere l’amore alla giornata, di cerca di valorizzare gli attimi, le cose piccole, si cerca di essere fatalisti, di relativizzare le difficoltà.
Nascono coppie, muoiono coppie, alcuni trovano lavoro e continuano a stare insieme a distanza, altri trovano lavoro e dopo tanti anni si lasciano, altri si lasciano perché non trovano lavoro, altri riescono a stare insieme proprio perché non hanno un lavoro e quindi hanno più tempo per vedersi. Tutto gira attorno alla parola lavoro che, una volta, era per gli italiani una parola normale; oggi è diventata una parola proibita, una specie di mistero.
Quando dici di avere un lavoro a tempo indeterminato la gente ti guarda ormai come se avessi una Ferrari.
La precarietà sta cambiando i costumi degli italiani profondamente, sta cambiando il loro modo di vivere le relazioni umane. Stiamo diventano più flessibili, più simili, in questo, alle società anglosassoni, dove da sempre tutto è più veloce e più flessibile, ma dove, tuttavia, tutto ciò è compensato da tendenziali maggiori opportunità e possibilità di crescita.
Nel frattempo i Paesi che economicamente ci stanno ancora dietro (Albania, Tunisia, Egitto) vedono le ribellioni delle piazze consumarsi proprio in questi giorni in cui mi interrogo sulla precarietà dei sentimenti.
Mi chiedo in quale periodo della loro vita quelle persone, che oggi lottano e manifestano con coraggio, o i loro genitori o persino i loro nonni abbiano chiesto a sé stesse come confrontarsi con questa forma di precarietà. Mi rispondo che forse io, nonostante tutto, da italiano, sono ancora un piccolo privilegiato perché almeno posso stare a interrogarmi su queste cose vedendo qualche possibilità futura e non mi trovo ancora in un Paese a quello stadio di reale disperazione.
Mi chiedo quanto tempo ci separi per il passaggio dal tempo della precarietà dei sentimenti al tempo delle sassaiole in tutte le piazze.
Riusciremo, a quel punto, a far evolvere la specie ancora una volta, da precario a rivoltoso che non ha più nulla da perdere?
Coltiviamo la fiducia, non costa nulla e non abbiamo alternative. Nel frattempo, consoliamoci pure con i nostri amori pagati a cottimo.
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