Ho letto da qualche parte che siamo una società liquida. La liquidità delle cose non trova differenza nella liquidità dei rapporti e delle persone. Siamo immersi in un fluido generale, un blob che travolge tutto mistificando uguaglianza, eliminando le differenze, degradando i valori delle cose e delle persone ad assiomi tutti uguali perché senza contenuto.
Siamo davvero una società liquida, in cui l’unica cosa consistente per la maggioranza delle persone sono i beni di consumo: i beni di consumo sono l’unica cosa tangibile. Il consumismo non ha creato solo l’abitudine al consumo ma ha creato una figura nuova: il valore del consumo. Il concetto fondamentale delle nostre società occidentali – e, quindi, di quella italiana – è che ogni cosa è destinata a fluire, ad avere un momento di esposizione nella vetrina, un momento di scelta, un momento di acquisizione, un momento di consumo, un momento di smaltimento.
Il punto problematico di questo fenomeno è che il meccanismo dei beni di consumo e del consumo dei beni come valore assoluto della società liquida fa sì che la nostra cultura di massa non riesce sempre ad astrarre il concetto di cosa ed il concetto di persone. La cronaca dimostra che il denaro compra tutto, persino i corpi, persino la dignità, persino la libertà. E se il denaro compra tutto significa che tutto è in vendita, cioè che anche le persone sono cose a cui applicare le regole dei beni di consumo.
Le persone sono beni di consumo, non per me ovviamente. Ma per la maggior parte delle persone la cultura del consumo non distingue tra l’individuo, il vestito e la macchina perchè, in fondo, ciò che compone il valore di un bene, in senso lato, è la sua fungibilità e la sua disponibilità per l’acquisizione sul mercato. E, in questo senso, persone sul mercato ce ne sono tante come, allo stesso modo, i centri commerciali espongono ogni tipo di merce.
Credo che sia un meccanismo inarrestabile. La televisione insegna che il tempo non è più il tempo del sole e della luna o il tempo dell’anima o il tempo della strada da percorrere tra una città e l’altra. Il tempo è solo il tempo televisivo: l’essere presente o l’essere assente, l’essere visibile o l’essere invisibile, l’essere sul mercato o l’essere fuori mercato, l’essere prodotto di consumo, prodotto ancora vendibile o invece prodotto ormai in scadenza.
E, così allo stesso modo, i rapporti tra alcune persone si sviluppano secondo il dogma della fungibilità: le persone sono beni accessibili, disponibili sul mercato ma perfettamente sostituibili. La presenza di una persona, la sua importanza, dipende dalla sua capacità di soddisfazione di bisogni egoistici, il valore di una persona dipende dal suo potere “mediatico”, cioè dalla sua capacità di suscitare attrazione nel sapersi proporre come prodotto vendibile. Ed in questa legge di consumo diffuso il valore speciale, profondo dell’essere individuo diventa una sorta di aspetto mediaticamente fallimentare. Parlare di sé, dei propri dubbi, dire “questo non mi piace” equivale a proporsi come quei programmi di approfondimento sui temi dell’economia che la Rai ogni tanto manda in onda a notte fonda e che solo qualche pazzo scriteriato insonne riuscirà a vedere, in preda ai fumi di qualche sostanza più o meno lecita.
Questa è la cultura in cui siamo depositati. Possiamo combattere per un alternativa?
Io credo nel valore della responsabilità. Credo nel principio di esigibilità. Credo che le nostre scelte provengano da un margine di libertà che anche noi stessi con la nostra critica e la nostra lotta siamo in grado di concederci.
Ma il rimprovero o l’assenza di rimprovero che si collega all’esigibilità di un comportamento presuppone in primo luogo il raggiungimento nell’individuo di uno stadio di consapevolezza e di libertà che consenta la valutazione necessaria per una scelta responsabile. Se manca la libertà di scelta o se questa è fortemente limitata (come nello stato di necessità, come nella coazione morale, come nel vizio di mente) il senso di valore o di disvalore di un comportamento risulta necessariamente e proporzionalmente condizionato. Se la libertà è quella che ci concedono i media (gli imbonitori che suggeriscono diete smaglianti e futuri trionfanti , come diceva Guccini) la nostra responsabilità discende inevitabilmente da quella fetta magra di spazio del consenso che ci è concessa. In questo modo, gli italiani, per lo più, sono diventati passivi in tutto: passivi davanti al televisore, passivi nelle scelte di consumatori di beni, passivi nelle scelte – in termini eguali – di consumatori di persone e di rapporti. Il livello di consapevolezza e quindi di esigibilità applicabile è quello che si applica a dei bambini o a degli infermi di mente.
Abbiamo il risultato di una società di massa composta da molte persone facilmente plasmabili, passive, poco evolute e, dunque, irresponsabili. Questo è il risultato a cui mirano i media e gli strateghi del marketing: studiare i comportamenti, le relazioni umane, gli spazi di scelta delle persone e limitare questi spazi di scelta orientando i nostri bisogni. Nella massa gli spazi di scelta vengono annullati a zero perché i bisogni vengono creati artificialmente; i media non concedono alcuna libertà perché educano i giudizi e le analisi delle masse nella creazione della percezione del bisogno e nella costruzione di una forma personale di felicità. La felicità non è più un bene individuale, unico, personale: la felicità è un prodotto di mercato, condiviso in una dimensione comune. Essere felici o cercare di essere felici non è più un’esperienza unica, libera; non è più una ricerca, una conquista difficile, travagliata ma libera. Essere felici equivale semplicemente ad applicare alcuni parametri che i media hanno costruito e, sulla base di quelle coordinate imposte, operare una scelta del bene o della persona migliore. La scelta, dunque, anche di una persona non è più una scelta libera, individuale; anch’essa è solo il prodotto prevedibile, ripetibile, conoscibile, di una scelta di mercato.
Il problema, dunque, è proprio qui. Il vortice della schiavizzazione alla cultura del consumo non ha avuto freni e non ha distinto tra cose e persone, creando una pericolosissima identificazione fra res e corpo. In questo stato di cose l’anima, i sentimenti delle persone (o come preferite chiamare il frullatore che abbiamo dentro) non hanno alcun ruolo; sono, al contrario, un ingombro nella misura in cui non si possono vendere o non si possono comprare.
I media hanno modificato i costumi di questo Paese, hanno creato un fascismo dei sentimenti che impone modelli di linguaggio conforme, standardizzato, omologato insostenibili nella costruzione di identità consapevoli.
Cosa possiamo esigere da un popolo di lobotomizzati dalla televisione berlusconiana? Cosa possiamo attenderci dai figli di Maria De Filippi, Alessia Marcuzzi, Simona Ventura e Barbara D’Urso? Cloni, cloni di corpi perfetti senza anima che inseguono altri corpi perfetti senza anima e che, come nel cambio d’abito di Sanremo, li sostituiscono con nuovi corpi perfetti senza anima.
Le persone sono plasmate dalla violenza e dalla aggressività di un programma come “Uomini e donne” fino alle ossa; si tratta di un esperimento di educazione delle masse senza precedenti, che accomuna queste ninfette e questi galli palestrati ai giovani balilla di un tempo. Tutti soldati pronti alla guerra del consumo di massa: creare individui e relazioni umane in cui è la res (e, dunque, il profitto) il criterio di orientamento e non la persona con la meravigliosa portata anarchica dei sentimenti. Gli strumenti di seduzione non sono più le parole, sono gli oggetti; il prezzo di un legame è il potere di acquisto di una persona; solo il bisogno individuale e la propensione al consumo animano la tensione verso qualcuno. E’ uno stato assolutamente mercificante dei rapporti umani; un’apocalisse di esseri reciprocamente consumanti e consumati. E ci sono pochi rimedi.
E’ necessaria la critica, la ribellione alla società del consumo perché nessuno di noi è un bene fungibile, nessuno di noi è sostituibile. Io credo nel valore della persona; io credo nella potenza anarchica dell’amore. Ognuno di noi è una storia unica; il valore di una persona è quello di un capolavoro assoluto, senza prezzo. Dobbiamo aprire le catene della schiavitù del consumo per avere una libertà maggiore da cui far discendere un maggior livello di responsabilità.
La massimizzazione della critica porta ad una massimizzazione della libertà e, dunque, ad un incremento del nostro livello di esigibilità di comportamenti più umani, più consapevoli, meno meccanici, meno robotici nelle relazioni umani.
Dobbiamo spegnare la televisione e aprire gli occhi e le orecchie e educarci di più all’amore, al vederci nudi e senza abiti.
Dobbiamo recuperare la forza della parola e della sincerità: gli attimi sono troppo sfuggenti ed il tempo sempre troppo poco. Io voglio una società più umana, in cui ci siano più anarchici e meno robot, più abbracci e meno frasi di situazione.
Se nessuno dovesse spegnere la tv o, almeno abbassare un po’ il volume, teniamoci stretti quei pochi veri amici che ci sono rimasti e si salvi chi può.
Se tutto vuole andare in malora che ci vada pure, ma almeno non a nome mio.
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